Nella sentenza del 15 novembre 2022 il Tribunale di Torino, ricostruite nel dettaglio le modalità di svolgimento delle prestazioni del rider, ha accertato, con riferimento al rapporto di lavoro instaurato da quest’ultimo con la società di food delivery, i caratteri propri della subordinazione.
Al fine di individuare il confine tra lavoro autonomo e lavoro subordinato, il Tribunale ha richiamato il consolidato orientamento della Corte di Cassazione secondo cui “l'elemento essenziale di differenziazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato consiste nel vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, da ricercare in base ad un accertamento esclusivamente compiuto sulle concrete modalità di svolgimento della prestazione lavorativa. In particolare, mentre la subordinazione implica l'inserimento del lavoratore nella organizzazione imprenditoriale del datore di lavoro mediante la messa a disposizione, in suo favore, delle proprie energie lavorative (operae) ed il contestuale assoggettamento al potere direttivo di costui, nel lavoro autonomo l'oggetto della prestazione è costituito dal risultato dell'attività (opus)” (v. Cass. n. 23324/2021).
Nella sentenza in commento è stata accertata la messa a disposizione da parte del rider delle proprie energie in favore dell’organizzazione imprenditoriale della società di food delivery e l’esercizio da parte di quest’ultima dei tre poteri caratterizzanti la subordinazione: potere direttivo, potere di controllo e potere disciplinare.
In relazione al potere direttivo, il Tribunale ha accertato la mancanza di autonomia del rider in relazione alla scelta del se e quando lavorare.
Invero, i rider sono risultati essere assoggettati nello svolgimento dell’attività lavorativa a puntuali indicazioni sotto ogni profilo. Tali indicazioni, per il Tribunale, “rendono il lavoro di ciascuno di essi completamente standardizzato, identico a quello degli altri e, come tale, del tutto fungibile. Pertanto è esclusa ogni autonomia al riguardo”.
La fase di affidamento della consegna è assoggettata a precise direttive. La stessa può avvenire solo utilizzando l’app scaricata sul cellulare, occorre trovarsi nella zona di consegna ed avere la batteria del cellulare carica almeno al 20%.
La scelta dell’ordine da consegnare viene fatta esclusivamente dall’algoritmo senza alcuna facoltà di scelta da parte del rider.
Anche per la fase esecutiva della consegna vi sono precise indicazioni da seguire sempre stabilite dall’app il cui utilizzo anche per tale fase risulta obbligatorio.
Lo stesso percorso da seguire per raggiungere il punto di ritiro e poi quello di consegna è stabilito dall’app. Il compenso, per la parte parametrata in km percorsi, viene calcolato in base al percorso suggerito dall’app.
Il mancato rispetto delle predette direttive impedisce di procedere nella sequenza presente sull’app stessa e, dunque, di formalizzare la conclusione della consegna e creare così le condizioni per ricevere l’ordine seguente.
Da ciò il Tribunale ha ritenuto che “tali direttive – specifiche, relative ad ogni singolo passaggio e sostanzialmente vincolanti – costituiscono indubbia espressione di una pesante eterodirezione dell’attività del ricorrente da parte della convenuta che la distingue nettamente dall’attività di consegna svolta da un lavoratore autonomo, il quale scelga personalmente come concretizzare ogni suo passaggio come, ad esempio, per quale esercente effettuare i trasporti e/o in quale zona effettuare le consegne, come orientarsi e quale percorso seguire, l’ordine con cui effettuare plurime consegne”.
Sotto il profilo dell’esercizio del potere di controllo è emerso che la società di food delivery, sempre attraverso la piattaforma digitale, è in grado di esercitare un controllo altrettanto esteso e pervasivo. Il sistema informatico registra per ogni rider gli slot prenotati, le informazioni del profilo del corriere, tutte le consegne accettate ed evase etc.
Infine, sotto il profilo del potere disciplinare, il Tribunale, ricordando l’orientamento della Corte di Cassazione, sent. n. 9343/2005, ha affermato “come la forte standardizzazione delle modalità della prestazione ed il suo assoggettamento a ‘continui controlli e diretti interventi di correzione’ riduca alquanto il possibile spazio di concreta presenza di un vero e proprio potere disciplinare”.
È la stessa piattaforma a ricondurre il rider al comportamento corretto rendendo ad es. automaticamente impossibile per quest’ultimo effettuare il check-in per lo slot prenotato se la batteria è sotto il 20% o se si trova fuori dalla zona di consegna.
I ricordati interventi di diretta correzione, avendo l’effetto di impedire al rider di lavorare e guadagnare, possono essere comparati alla sanzione disciplinare della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione.
Anche l’articolato meccanismo di attribuzione di premi e punizioni conseguenti al come e il quando il rider lavora rientrano in tale schema non dissimile dall’esercizio di un potere disciplinare. La performance del rider è valutata in forza di vari parametri tutti connessi o alle modalità con cui lo stesso svolge la prestazione o alla sua produttivita nel tempo.
Secondo il Tribunale, “il sistema di reazioni al mancato rispetto da parte del rider delle numerose indicazioni che deve seguire nell’effettuare la consegna, così come la valorizzazione in termini di punteggio della sua produttività, lo collocano invece in una situazione analoga a quella del lavoratore subordinato”.
In tale contesto, l’attività che la società di food delivery svolge è ben diversa dall’attività di intermediazione tra esercenti e consumatori. La piattaforma, dice il Tribunale, “non si limita effettivamente a mettere in contatto gli uni con gli altri in uno spazio virtuale in cui i primi promuovono i loro prodotti e i secondo scelgono ciò che vogliono acquistare”, ma “offre un servizio aggiuntivo di ‘consegna ai consumatori’ … che realizza attraverso una complessa organizzazione incentrata sui rider e sulla loro gestione da parte della piattaforma”.
Con la conseguenza che nel caso di specie si è realizzata l’essenza stessa della subordinazione.
Per il testo integrale della sentenza clicca qui:
https://www.wikilabour.it/wp-content/uploads/2023/02/20221115_Trib-Torino.pdf
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La natura subordinata del rapporto di lavoro tra Uber Italy s.r.l. e i rider.
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https://www.bollettinoadapt.it/wp-content/uploads/2020/03/Cassazione-1663-2020-riders.pdf
Con la sentenza n. 5657 del 23 febbraio 2023 le Sezioni Unite della Cassazione si sono espresse in merito alla meritevolezza ai sensi dell’art. 1322 c.c. di un contratto di leasing immobiliare con clausola di ‘rischio cambio’ in valuta estera, escludendone la natura di strumento finanziario derivato.
I fatti di causa
Il caso esaminato dalla Corte riguarda la validità o meno di un contratto di leasing immobiliare in valuta estera (franco svizzero) con clausola di ‘rischio cambio’.
In primo grado, in seguito all’opposizione a decreto ingiuntivo promossa dalla soc. utilizzatrice, il Tribunale di Udine aveva ritenuto che la clausola in cui era prevista la variazione del canone in funzione sia del tasso LIBOR che del tasso di cambio tra l'Euro ed il franco svizzero contenesse in realtà due strumenti finanziari derivati, autonomi rispetto al contratto di leasing. Pertanto, il contratto doveva ritenersi nullo a causa della violazione degli obblighi di informazione precontrattuale prescritti dal d.lgs. 58/98.
L’impugnazione proposta dalla concedente è stata rigettata dalla Corte d’appello di Trieste, seppur con motivazione diversa da quella del Tribunale.
Secondo la Corte d'appello l'intero contratto sottoposto al suo esame era da configurare come “una sorta di swap”, da qualificarsi come un contratto ‘aleatorio’ e rientrante nel genus delle scommesse.
La Corte ha poi aggiunto che “la clausola di ancoraggio del canone al tasso di cambio tra franco svizzero ed Euro era "astrusa, macchinosa, complessa e oscura", e provocava uno "squilibro nelle prestazioni", in quanto la formula di calcolo del "rischio cambio" differiva a seconda che la variazione fosse favorevole o sfavorevole al concedente; che il contratto era stato qualificato come "contenente elementi riconducibili a strumenti finanziari derivati" anche dal consulente d'ufficio nominato in primo grado; che al momento della stipula - sempre ad avviso del c.t.u. - era "prevedibile un apprezzamento del franco" rispetto all'Euro”.
Ciò premesso, la Corte d'appello accoglieva l'opposizione al decreto ingiuntivo sulla base del fatto che la clausola di rischio cambio era “invalida ex art. 1322, comma 2, c.c.”, e non già perché il contratto fosse nullo a causa della violazione degli obblighi di informazione precontrattuale prescritti dal d. lgs. 58/98, come invece aveva ritenuto il Tribunale.
L’ordinanza interlocutoria
In seguito al ricorso per cassazione promosso dalla società concedente, con ordinanza interlocutoria 16 marzo 2022 n. 8603 la Terza Sezione civile della Cassazione ha rimesso gli atti al Primo Presidente, affinché fosse valutata l'opportunità di assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
Nella predetta ordinanza, ravvisata l'esistenza di contrastanti decisioni circa la validità di clausole come quella in esame, è stato sollecitato l’intervento delle Sezioni Unite in merito alle seguenti questioni:
Il giudizio di meritevolezza e lo ‘scopo pratico’ del contratto
Le Sezioni Unite hanno ritenuto fondato il secondo motivo di ricorso con cui il ricorrente aveva censurato la sentenza impugnata per violazione dell’art. 1322 c.c.
Il giudizio di “meritevolezza” di cui all'art. 1322, comma 2, c.c., dicono le Sezioni Unite, richiamando un orientamento consolidato (S.U. 4222/2017), è un giudizio che deve investire non il contratto in sé, ma il risultato che con esso hanno avuto di mira le parti (cioè lo scopo pratico, la causa concreta).
La causa concreta del contratto è immeritevole solo quando sia contraria “alla coscienza civile, all'economia, al buon costume od all'ordine pubblico”.
Tali principi, già affermati nella Relazione al Codice Civile, risultano oggi consacrati agli artt. 2, secondo periodo, 4, comma 2, e 41, comma 2 Cost.
Nella sentenza in commento, le Sezioni Unite hanno altresì precisato che affinché un patto atipico possa dirsi “immeritevole”, ai sensi dell'art. 1322 c.c., non è sufficiente che il contratto sia poco conveniente per una delle parti, ma “è necessario accertare la contrarietà (non del patto, ma) del risultato cui esso mira con i principi di solidarietà, parità e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati”.
Le argomentazioni della Corte d’appello sono state considerate, come vedremo, irrilevanti ai fini del giudizio di meritevolezza della clausola ‘rischio cambio’ contenuta nel contratto di leasing immobiliare in valuta estera.
Il contratto con clausola ‘astrusa’
La presenza nel contratto di una clausola contrattuale “astrusa” non rende il contratto nullo o “immeritevole” ex 1322 c.c., ma impone al Giudice di fare ricorso agli strumenti legali di ermeneutica (“la clausola oscura andrà dunque interpretata, in mancanza di altri criteri, almeno in modo che le si possa dare un senso (artt. 1371 c.c.), oppure contra proferentem (art. 1370 c.c.)”.
Il contratto con clausola ‘macchinosa’
Neppure la presenza di una clausola contrattuale “macchinosa” è idonea a fondare il giudizio di non meritevolezza. Al più la stessa potrà rendere il contratto annullabile laddove abbia inciso sulla formazione del consenso del contraente (consenso dato per errore o carpito con dolo) o potrà influire sulla violazione del dovere di fornire tutte le necessarie informazioni precontrattuali, ove imposte dalla legge o dalla buona fede.
Le Sezioni Unite ricordano come siano stati elaborati dalla prassi commerciale numerosi contratti che prevedono necessariamente clausole articolate e complesse (ad es. i contratti di handling aeroportuale, le assicurazioni dei rischi agricoli, il noleggio di piattaforme off-shore, il project financing di opere pubbliche, ma anche i contratti di massa come quelli di somministrazione di energia elettrica), ma non per questo gli stessi devono essere considerati immeritevoli di tutela.
Il contratto aleatorio
Secondo la Corte d’appello, la clausola di ‘rischio cambio’ nel contratto in esame era caratterizzata da “aleatorietà e squilibrio”, in quanto prevedeva una differente base di calcolo dell’indicizzazione a seconda che l’euro si fosse apprezzato o deprezzato rispetto alla valuta di riferimento.
Per le Sezioni Unite un contratto aleatorio non può dirsi, per ciò solo, immeritevole di tutela: “la sentenza impugnata mostra di confondere l'alea economica, insita in ogni contratto, con l'alea giuridica, che del contratto forma invece oggetto e ne è elemento essenziale: e cioè la susceptio periculi. E nel caso di specie causa del contratto era il trasferimento della proprietà di un immobile, non il trasferimento di un rischio dietro pagamento di un prezzo”.
La vendita del raccolto futuro, l'assicurazione sulla vita a tempo determinato per il caso di morte, la rendita vitalizia, ricordano le Sezioni Unite, sono tutti contratti aleatori previsti dalla legge.
Allora se è la stessa legge a consentire la stipula di contratti aleatori, la stessa aleatorietà non può ritenersi di per sé caratteristica idonea a rendere il contratto ‘immeritevole’ ai sensi dell’art. 1322, co. 2, c.c.
Non solo la legge, ma anche l’autonomia negoziale consente alle parti di stipulare contratti aleatori atipici non espressamente previsti dalla legge (v. il caso del vitalizio atipico di cui è stata affermata in giurisprudenza la liceità e la meritevolezza).
Lo squilibrio delle prestazioni
Per le Sezioni Unite, lo “squilibrio” delle prestazioni, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte d’appello, non è idoneo a fondare un giudizio di immeritevolezza contrattuale.
La clausola di ‘rischio cambio’, secondo il giudice di secondo grado, determinava uno squilibrio tra le obbligazioni dei contraenti non essendo simmetrica la variazione del saggio degli interessi tra il concedente e l’utilizzatore.
Le Sezioni Unite non concordano sul fatto che il concetto di ‘equilibrio delle prestazioni’ in un contratto sinallagmatico debba consistere in una paritaria e perfetta equipollenza tra le contrapposte obbligazioni.
Evocando in modo suggestivo l’immaginedel ‘letto di Procuste’, le Sezioni Unite sostengono che ogni minimo disallineamento della predetta parità non possa essere sindacato dal giudice “amputando parti del contratto per ricondurlo all’equità”.
La ragione è che “il diritto dei contratti… non impone l'assoluta parità tra le parti quanto a condizioni, termini e vantaggi contrattuali”.
Un’interpretazione diversa si porrebbe in contrasto con il principio cardine del nostro ordinamento della libertà negoziale.
Nello svolgimento della libera iniziativa economica, ciascuno ha il diritto di pianificare in piena libertà le proprie scelte imprenditoriali e commerciali pur sempre nel rispetto delle regole e della buona fede.
Alla luce di ciò lo squilibrio tra prestazione e controprestazione, laddove sia la conseguenza di una decisione assunta in piena libertà ed autonomia, non determina l’immeritevolezza del contratto.
Contro lo squilibrio (economico) tra le prestazioni, precisano le Sezioni Unite, quando lo stesso è genetico, è ammesso come rimedio il ricorso alla rescissione per lesione, quando è sopravvenuto il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.
Il giudizio di meritevolezza va formulato in concreto ed ex post
La valutazione circa la validità o la meritevolezza di un patto contrattuale - in forza del principio per cui cum nulla subest causa, constare non potest obligatio - non può mai limitarsi all'esame del suo contenuto, senza apprezzarne gli effetti, e senza valutare se essi siano sorretti da una giusta causa.
Il giudizio sulla meritevolezza, affermano le Sezioni Unite, non può essere formulato in astratto ed ex ante, ma va compiuto in concreto ed ex post, ricercando lo scopo perseguito dalle parti.
La clausola di ‘rischio cambio’, affermano le Sezioni Unite, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice di secondo grado, avrebbe potuto avere varie giustificazioni (“Se infatti il franco svizzero si fosse apprezzato rispetto all'Euro, il concedente avrebbe ricevuto una prestazione (in Euro) di valore nominale inferiore a quella che gli sarebbe spettata in valore reale, e tale riduzione avrebbe riguardato l'intero credito: sia la parte pagata dall'utilizzatore a titolo di rimborso del finanziamento, sia la parte pagata a titolo di imposta. Il concedente, dunque, in tal caso avrebbe ricevuto un corrispettivo inferiore a quello preventivato, e ciò avrebbe alterato il suo piano finanziario: e questa sarebbe potuta essere teoricamente una valida ragione per porre a base del calcolo del conguaglio anche l'IVA. Se invece il franco svizzero si fosse deprezzato rispetto all'Euro, l'utilizzatore avrebbe versato (in Euro) una prestazione in valore nominale superiore a quella che avrebbe dovuto versare in valore reale. Ma degli importi versati dall'utilizzatore, però, il concedente doveva necessariamente stornarne un'aliquota a titolo di IVA, e di tale importo non sarebbe stato in potere del concedente pretenderne la restituzione dall'erario, per restituire l'eccedenza all'utilizzatore: e questa sarebbe potuta essere teoricamente una valida ragione per porre a base del calcolo del conguaglio anche l'IVA.”
In conclusione, le circostanze accertate dalla Corte di appello (aleatorietà, difficoltà di interpretazione, asimmetria delle prestazioni) sono irrilevanti ai fini del giudizio di meritevolezza previsto dall’art. 1322 c.c.
Sulle questioni poste dall’ordinanza di rimessione. La definizione di strumento finanziario derivato.
In relazione alle questioni poste dall’ordinanza interlocutoria e più sopra riassunte, le Sezioni Unite hanno escluso che la clausola inserita nel contratto di leasing che faccia dipendere gli interessi dovuti dall'utilizzatore dalla variazione di un indice finanziario insieme ad un indice monetario, costituisca uno strumento finanziario derivato o piuttosto un ‘derivato implicito’.
La clausola di ‘rischio cambio’ non rientra nella nozione di derivato contenuta dell’art. 1 del d.lgs. 58/1998 nè in base alla normativa vigente né in base a quella ratione temporis applicabile (anteriore alle modifiche operate dal d.lgs. 303/2006).
Secondo le Sezioni Unite la clausola in esame non costituisce derivato “per la semplice ragione che attraverso essa le parti non hanno scambiato nulla; né hanno inteso trarre frutto da uno scambio di valori comunque determinati”.
Per effetto del contratto, avente ad oggetto la locazione finanziaria dell'immobile, la società concedente ha assunto l'obbligo di acquistare l'immobile, la società utilizzatrice quello di goderne e restituire le rate.
Non era interesse delle parti, dicono le Sezioni Unite, concludere quel contratto “per lucrare sulle previste fluttuazioni valutarie, e tanto meno per coprire un rischio di credito”.
La clausola che àncora il saggio degli interessi dovuti dal debitore di un contratto di leasing ad un indice monetario non costituisce una compravendita né un'opzione, e tanto meno aveva lo scopo di coprire un certo rischio o "scommettere" sull'andamento dei cambi.
La clausola, continuano le Sezioni Unite, “si limitava ad agganciare il debito dell'utilizzatore ad un valore monetario, e questa Corte ha già stabilito che rientrano nella categoria degli "strumenti finanziari collegati alla valuta" soltanto quelli per mezzo dei quali le parti intendono speculare sull'andamento del mercato delle valute, e non quelli che si limitano a determinare il valore d'una prestazione rinviando ad un indice monetario, comunque determinato (Sez. 1, Sentenza n. 19226 del 04/09/2009, in motivazione)”.
Gli elementi fondanti uno strumento finanziario derivato sono principalmente tre (e sono stati individuati dalle S.U. Cass. 8770/2020):
I predetti tre requisiti non sussistono nel caso del leasing immobiliare in valuta estera con clausola di ‘rischio cambio’ in quanto l’oggetto del negozio è indubitabilmente l'acquisto di un immobile e non la speculazione su un titolo; il capitale produttivo dei flussi finanziari è reale e realmente dovuto, e non già nozionale; non è prevista la possibilità di sciogliersi avvalendosi dell’opzione.
La clausola di rischio cambio non ‘inquina’ la causa del contratto di leasing
In relazione poi all’altra questione sollevata dall’ordinanza interlocutoria e cioè “se la clausola di rischio cambio snaturi la causa del contratto di leasing”, le Sezioni Unite hanno dato risposta negativa.
Per stabilire se un contratto, a causa di pattuizioni eterogenee rispetto al suo schema tipico, abbia mutato causa e natura, occorre attenersi a tre criteri:
Ciò premesso, le Sezioni Unite giungono alla conclusione che “la previsione di maggiori o minori obblighi a carico di una delle parti, rispetto a quelli scaturenti dallo schema contrattuale tipico, non è di per sé sufficiente a concludere che quel contratto, merce' la pattuizione di quegli obblighi aggiuntivi, abbia mutato causa e natura”.
Alla luce dei predetti principi la presenza della clausola di rischio cambio nel contratto di leasing non consente di affermare “che, mercè essa, scopo dell'utilizzatore non fu acquisire un immobile, ma fu investire del denaro per realizzare un lucro finanziario invece che commerciale”.
La clausola di rischio cambio non è contraria a buona fede.
In merito all’ultima questione sollecitata dall’ordinanza interlocutoria, le Sezioni Unite hanno affermato che il giudizio di meritevolezza del contratto e quello riguardante il rispetto del dovere di buona fede servono a stabilire cose diverse.
Il giudizio di meritevolezza serve a stabilire se il contratto possa produrre effetti, mentre quello sul rispetto della buona fede serve a stabilire ad esempio, prima della stipula, se il consenso di una delle parti sia stato carpito con dolo o dato per errore, e, dopo la stipula, a stabilire come debba interpretarsi il contratto (art. 1366 c.c.). Ancora, dopo l'adempimento, può servire a stabilire se questo sia stato inesatto (art. 1375 c.c.).
Mentre il contratto immeritevole è improduttivo di effetti, il contratto eseguito senza buona fede fa sorgere il diritto alla risoluzione o al risarcimento del danno.
Alla luce di questi noti principi, le Sezioni Unite, hanno affermato che “la sola pattuizione di una clausola di rischio cambio come quella oggetto del presente giudizio non può costituire, da sola, violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte di un intermediario creditizio o finanziario”.
I principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite
A conclusione della disamina, le Sezioni Unite hanno affermato con la sentenza in commento i seguenti principi di diritto:
- “il giudizio di "immeritevolezza" di cui all'art. 1322, comma 2, c.c. va compiuto avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti, e non alla sua convenienza, né alla sua chiarezza, né alla sua aleatorietà";
- "La clausola inserita in un contratto di leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone varii in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica ed una valuta straniera; b) l'importo mensile del canone resti nominalmente invariato, e i rapporti di dare/avere tra le parti dipendenti dalle suddette fluttuazioni siano regolati a parte; non è un patto immeritevole ex art. 1322 c.c., né costituisce uno "strumento finanziario derivato" implicito, e la relativa pattuizione non è soggetta alle previsioni del d.lgs. 58/98".
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Con la sentenza n. 28975 del 5 ottobre 2022 le Sezioni Unite hanno affermato importanti principi di diritto con riferimento alla disciplina del rito sommario di cognizione. In particolare, dopo un’attenta ricostruzione della normativa applicabile, la sentenza, risolvendo un contrasto giurisprudenziale sorto sul tema, è giunta alla conclusione che il termine di impugnazione dell’ordinanza ai sensi dell’art. 702-ter, comma 6, c.p.c. decorre, per la parte costituita, dalla sua comunicazione o notificazione e non dal giorno in cui essa sia stata eventualmente pronunciata e letta in udienza e che, in mancanza delle suddette formalità, l’ordinanza può essere impugnata nel termine di sei mesi dalla sua pubblicazione, a norma dell’art. 327 c.p.c.
1. – I fatti di causa
Con la sentenza in commento è stato accolto il ricorso di un cittadino straniero avverso la sentenza di secondo grado che aveva dichiarato, nell’ambito di un procedimento per la protezione internazionale e umanitaria, la tardività dell’impugnazione proposta ai sensi dell’art. 702-quater c.p.c.
L'impugnazione, secondo il giudice di secondo grado, era da considerarsi tardiva essendo stata notificata oltre il termine di trenta giorni prescritto dall'art. 702-quater c.p.c. dalla data di lettura in udienza dell'ordinanza impugnata.
In seguito alla proposizione del ricorso, la questione riguardante la decorrenza del termine di impugnazione di cui all’art. 702-quater c.p.c., nonché quella riguardante l’appellabilità o meno dell’ordinanza di cui all’art. 702-ter, comma 6, c.p.c. nel termine di cui all’art. 327 c.p.c., sono state devolute allo scrutinio delle Sezioni Unite, avendo rilevanza generale e non solo limitata all’ambito della protezione internazionale.
2. - Le questioni sottoposte all’esame delle Sezioni Unite
Nella sentenza in commento, le Sezioni Unite dirimono un contrasto sorto in giurisprudenza che ha posto il seguente dubbio interpretativo: se il termine di impugnazione dell’ordinanza ai sensi dell’art. 702-quater c.p.c., anche quando la cancelleria abbia provveduto alla comunicazione integrale dell’ordinanza, decorra, per la parte costituita nelle controversie regolate dal rito sommario, dal giorno in cui la stessa sia stata pronunciata e letta in udienza, senza alcuna rilevanza delle circostanze dell'avvenuta lettura alla fine dell'udienza, in assenza della parte e non contestualmente alla trattazione della singola causa, né di alcun avviso previo ai difensori.
Secondo un certo orientamento “il termine per proporre appello avverso l'ordinanza resa in udienza e inserita a verbale decorre, pur se questa non sia stata comunicata o notificata, dalla data dell'udienza stessa, equivalendo la pronuncia in tale sede a "comunicazione" ai sensi degli artt. 134 e 176 c.p.c.; neppure essendo applicabile, limitatamente all'appello, l'art. 327, comma 1 c.p.c., poiché la decorrenza del termine per proporre tale mezzo di impugnazione dal deposito dell'ordinanza è logicamente e sistematicamente esclusa dalla previsione, contenuta nell'art. 702-quater c.p.c., di decorrenza dello stesso termine, per finalità acceleratorie, dalla comunicazione o dalla notificazione dell'ordinanza medesima” (cfr. Cass., 6 giugno 2018, n. 14478).
Secondo altra giurisprudenza, la decorrenza del termine breve di impugnazione dell'ordinanza, a norma dell'art. 702-quater c.p.c., dalla comunicazione o dalla notificazione dell'ordinanza medesima deve essere esclusa, per la parte costituita, dalla data dell'udienza in cui l’ordinanza sia stata eventualmente resa mediante lettura in udienza ed inserimento a verbale “in quanto inapplicabile la diversa disciplina dell'art. 281sexies c.p.c.” (Cass., 18 maggio 2021, n. 13439).
In altra sentenza, con riferimento all’art. 281-sexies c.p.c., la Corte di Cassazione ha chiarito che “la lettura della sentenza in udienza e la sottoscrizione, da parte del giudice, del verbale che la contiene, non solo equivalgano alla pubblicazione prescritta nei casi ordinari dall'art. 133 c.p.c., ma anche esonerino il cancelliere dall'onere della comunicazione: sull'assunto che la lettura del provvedimento in udienza debba ritenersi conosciuta, con presunzione assoluta di legge, dalle parti presenti o che avrebbero dovuto essere presenti” (v. Cass., 5 aprile 2017, n. 8832).
Il contrasto, rilevano le Sezioni Unite, si registra anche in relazione alla diversa questione riguardante la possibilità o meno di proporre appello contro l’ordinanza di cui all'art. 702-ter, comma 6, c.p.c. nel termine semestrale stabilito dall'art. 327 c.p.c. (Cass., 6 giugno 2018, n. 14478 esclude tale possibilità, mentre Cass., 27 giugno 2018, n. 16893 la ritiene ammissibile).
3. - La questione riguardante la decorrenza del termine ‘breve’ di impugnazione
Dopo un’approfondita ricostruzione della disciplina e delle caratteristiche principali del rito sommario di cognizione, le Sezioni Unite hanno rilevato come sia il procedimento sommario di cognizione che il modello decisorio previsto dall'art. 281-sexies c.p.c. costituiscano “rimedi preventivi”, ex artt. 1 – bis ed 1 – ter L. 89/2001 a fronte della violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sotto il profilo della durata non ragionevole del processo.
La comunicazione dell’ordinanza ai sensi dell’art. 702-quater c.p.c., così come la trattazione ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c., avendo funzione acceleratoria del giudizio, sottraggono alle parti la decisione (tramite la notificazione, a norma dell'art. 326 c.p.c.) sull'applicazione del termine breve di impugnazione, in quanto effetto automatico della conoscenza del provvedimento.
Sul punto le Sezioni Unite ricordano altresì che la questione della legittimità costituzionale dell’art. 702-quater c.p.c., “per asserita violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui stabilisce che l'ordinanza conclusiva del procedimento sommario di cognizione è appellabile entro il termine breve di trenta giorni dalla sua comunicazione ad opera della cancelleria, è stata ritenuta manifestamente infondata, trattandosi di una scelta discrezionale del legislatore, ragionevolmente in linea con la natura celere del procedimento, né lesiva del diritto di difesa, in quanto il detto termine decorre dalla piena conoscenza dell'ordinanza, che si ha con la comunicazione predetta ovvero con la notificazione ad istanza di parte”.
Il tenore letterale del testo dell’art. 702-quater, affermano le Sezioni Unite, è insuscettibile di un'interpretazione ricalcata sul modello decisorio dell'art. 281-sexies c.p.c. che invece ammette la decorrenza del termine per proporre appello avverso l'ordinanza resa in udienza e inserita a verbale, pur se questa non sia stata comunicata o notificata, dalla data dell'udienza stessa, equivalendo la pronuncia in tale sede a "comunicazione" ai sensi degli artt. 134 e 176 c.p.c.
Ciò premesso, le Sezioni Unite nella sentenza in commento ribadiscono che, ai fini della decorrenza del termine di trenta giorni previsto dall'art. 702-quater c.p.c.,“la comunicazione di cancelleria debba avere ad oggetto il testo integrale della decisione, comprensivo del dispositivo e della motivazione; con la conseguenza che, ai detti fini, occorra fare riferimento alla data di notificazione del provvedimento ad istanza di parte, ovvero, se anteriore, alla comunicazione di cancelleria in forma integrale, ossia comprensiva di dispositivo e motivazione” (Cass. 23 marzo 2017, n. 7401; Cass. 16 febbraio 2022, n. 5079).
Non è dunque possibile far decorrere il termine breve d'impugnazione dalla sola notizia del dispositivo, per evidenti esigenze di difesa della parte soccombente, la quale deve avere la necessaria conoscenza della motivazione per poter predisporre i motivi di gravame.
La comunicazione dell’ordinanza nel procedimento sommario di cognizione ha un evidente carattere di specialità rispetto a quella della sentenza ordinariamente prevista dall'art. 133, comma 2, c.p.c., in quanto produttiva di uno specifico effetto (decorrenza del termine di appellabilità).
Al contrario l’art. 133 c.p.c. esclude espressamente tale effetto disponendo che “…La comunicazione non è idonea a far decorrere i termini per le impugnazioni di cui all'art. 325”.
Preso atto dell’essenzialità della comunicazione nel sistema impugnatorio istituito dall'art. 702-quater c.p.c., in funzione della stabilizzazione degli effetti di cui all'art. 2909 c.c. della decisione, la stessa è pertanto necessaria anche laddove l'ordinanza sia stata pronunciata in udienza, perché, continuano le Sezioni Unite, “dire che l'ordinanza pronunciata in udienza è conosciuta dalle parti e quindi si ha per pubblicata è... cosa diversa dall'affermare che tale pronuncia è idonea a soddisfare il requisito della comunicazione, prescritto dall'art. 702quater c.p.c. per il decorso del termine breve".
La comunicazione deve essere intesa ai fini dell’art. 702-quater c.p.c. come "completezza e certezza della notizia sulla possibilità di accedere al provvedimento e come disponibilità del suo testo".
4. – Sull’applicabilità del termine ‘lungo’ di impugnazione previsto dall'art. 327 c.p.c.
Secondo le Sezioni Unite risulta applicabile all'ordinanza ai sensi dell'art. 702-ter, comma 6, c.p.c., qualora essa non sia stata comunicata, il termine semestrale di impugnazione “in corrispondenza coerente all'esigenza di stabilizzazione della decisione, in funzione di certezza dei rapporti giuridici”.
L'introduzione di una norma specifica per regolare il termine breve di impugnazione, cioè l'art. 702-quater, non può essere intesa come manifestazione di una voluntas legis escludente il termine lungo (“l'introduzione di una specifica disciplina attinente al termine breve e agli effetti del suo decorso non può quindi assorbire in modo meramente implicito la via dell'art. 327”).
Le Sezioni Unite ritengono che al rito sommario di cognizione ben possano applicarsi le disposizioni di ordine generale, poste a chiusura del sistema, quale è l’art. 327 c.p.c. in discussione (con la sua decorrenza dalla data di pubblicazione dell'ordinanza, che, come noto, si effettua con il deposito del provvedimento in cancelleria).
5. - Il richiamo ai principi di diritto affermati dalle Sezioni Unite sulla decorrenza del termine di riassunzione del giudizio interrotto (S.U. 12154/2021).
Il tema dell'esigenza di una conoscenza effettiva e non di una conoscenza legale, che si risolva in una conoscibilità mera, ricorda la sentenza in commento, è stato già affrontato dalle Sezioni Unite con la sentenza del 7 maggio 2021, n. 12154 in riferimento alla necessità di ancorare ad una conoscenza effettiva la decorrenza del termine di riassunzione del giudizio interrotto (v. sul tema un nostro precedente commento “Le Sezioni Unite sull’individuazione del dies a quo per la riassunzione del processo interrotto per intervenuta dichiarazione di fallimento di una delle parti”), ancorché automaticamente, per effetto della dichiarazione di fallimento di una delle parti, ai sensi dell'art. 43 L. Fall.
In quel caso, si è ritenuto che “la conoscenza dell'evento interruttivo debba attingere la parte interessata nello specifico processo, in cui i suoi effetti siano esplicitati mediante una dichiarazione, una notificazione o una certificazione rappresentative di esso, assistite da fede privilegiata e che non sia sufficiente una conoscenza altrimenti acquisita: con attribuzione così di rilievo non soltanto al mezzo di diffusione della notizia, ma anche alla sua fonte. Come è stato osservato, una tale istanza esprime nel suo nucleo irriducibile il principio costituzionale del giusto processo (artt. 24 e 111, primo e comma 2 Cost.), che esige il suo effettivo inveramento nel processo, con il pieno rispetto delle sue regole”.
Anche alla luce di tali principi, la conoscenza del momento di decorrenza del termine di appellabilità dell'ordinanza emessa ai sensi dell'art. 702-ter, comma 6 c.p.c. deve essere certa e “derivare da un mezzo di diffusione della notizia, garantito nella sua fonte, così da essere assistita da una fede privilegiata, nell'insufficienza di una conoscenza altrimenti acquisita”.
Una tale certezza di individuazione del momento rilevante (decorrenza del termine di trenta giorni per l'appellabilità dell'ordinanza) è stata posta dal legislatore con una norma positiva ("dalla sua comunicazione o notificazione").
Sicché, affermano le Sezioni Unite, “il rispetto dell'art. 3 Cost. sarebbe negato da un regime di decadenza dall'impugnazione, dipendente dalla scelta del singolo ufficio giudiziario di modalità processuali ed operative”.
6. – Il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite
Dalle superiori argomentazioni le Sezioni Unite, accogliendo il ricorso proposto, hanno enunciato il seguente principio di diritto: "Il termine (di trenta giorni) di impugnazione dell'ordinanza ai sensi dell'art. 702-quater c.p.c. decorre, per la parte costituita nelle controversie regolate dal rito sommario, dalla sua comunicazione o notificazione e non dal giorno in cui essa sia stata eventualmente pronunciata e letta in udienza, secondo la previsione dell'art. 281sexies c.p.c. In mancanza delle suddette formalità, l'ordinanza può essere impugnata nel termine di sei mesi dalla sua pubblicazione, a norma dell'art. 327 c.p.c.”.
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