Con l’ordinanza interlocutoria n. 8375, del 30/03/2025 la Prima Sezione civile ha rimesso la discussione del ricorso alla pubblica udienza, attesa la particolare rilevanza nomofilattica della questione riguardante il diritto del titolare dell’assegno divorzile a conservare la quota del TFR maturato in capo all’ex coniuge anche nel caso in cui quest’ultimo faccia confluire l’intero TFR in un Fondo di previdenza complementare.
La questione introdotta con l’unico motivo di ricorso per cassazione riguarda la violazione dell’art. 12 bis della l. n. 898 del 1970, concernente il diritto della moglie divorziata a percepire una quota del TFR maturato durante gli anni di matrimonio anche in caso di versamento a Fondo Previdenziale avvenuto in unica soluzione poco prima del pensionamento.
In forza dell’art. 12bis, ricorda la Cassazione, “Il coniuge nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio ha diritto, se non passato a nuove nozze e in quanto sia titolare di assegno ai sensi dell'articolo 5, ad una percentuale dell'indennità di fine rapporto percepita dall'altro coniuge all'atto della cessazione del rapporto di lavoro anche se l'indennità viene a maturare dopo la sentenza”.
La condizione per l’ottenimento della quota del trattamento di fine rapporto dell’ex coniuge è che il richiedente sia titolare di un assegno divorzile al momento in cui l’ex coniuge matura il diritto alla corresponsione di tale trattamento.
Alla base della disposizione normativa, afferma la Cassazione, “si rinvengono profili assistenziali, evidenziati dal fatto che la disposizione stessa presuppone la spettanza dell’assegno divorzile, ma anche criteri di carattere compensativo, predeterminati dalla legge…. La finalità, in sintesi, è quella di attuare una partecipazione, seppure posticipata, alle fortune economiche costruite insieme dai coniugi finché il matrimonio è durato”.
Il trattamento di fine rapporto, anche se attribuito quando il vincolo matrimoniale è ormai sciolto, deriva pur sempre dall’accantonamento di somme operato nel corso del rapporto di lavoro e, per il tempo in cui tale rapporto si è svolto durante la convivenza matrimoniale.
Pertanto, l’ex coniuge del lavoratore ha quindi diritto di godere di una quota di tale trattamento, nel caso in cui abbia ottenuto il riconoscimento del diritto all’assegno divorzile.
La previsione di cui all’art. 12 bis l. n. 898 del 1970, precisa la Cassazione nell’ordinanza in commento, “si applica a tutte quelle indennità, comunque denominate, che maturano alla data di cessazione del rapporto lavorativo e che sono determinate in misura proporzionale alla durata del rapporto di lavoro e all'entità della retribuzione corrisposta, trattandosi di una quota differita della retribuzione, condizionata sospensivamente nella riscossione dalla risoluzione del rapporto di lavoro”.
Le Sezioni Unite, intervenute sul tema con la sentenza n. 6229/2024, hanno chiarito che per poter stabilire se una determinata attribuzione in favore del lavoratore rientri o meno fra le indennità di fine rapporto contemplate dall'art. 12 bis, “non è determinante il carattere strettamente o prevalentemente retributivo della stessa, essendo decisivo, piuttosto, il correlarsi dell'attribuzione … all'incremento patrimoniale prodotto nel corso del rapporto dal lavoro del coniuge che si è giovato del contributo indiretto dell'altro”.
Ad es., la giurisprudenza ha ritenuto incluse nella richiamata disciplina le indennità di fine rapporto spettanti ai dipendenti pubblici che consistono in quote differite della retribuzione, suscettibili di esazione dopo l’estinzione del rapporto di lavoro e le indennità egualmente concepite, riferite ai rapporti di lavoro parasubordinato. Sono state invece ritenute estranee le prestazioni private di natura previdenziale e assicurativa, come l'indennità di cessazione dal servizio corrisposta ai notai, l'indennità da mancato preavviso per licenziamento in tronco e l'indennità percepita a titolo di risarcimento del danno per illegittimo licenziamento.
Anche l’indennità di incentivo all’esodo, non operando quale retribuzione differita, è stata ritenuta estranea alla predetta nozione.
Con riferimento al TFR, la giurisprudenza ha affermato che l’art. 12 bis della l. 898/1970 riconosce al coniuge divorziato titolare di assegno divorzile la quota del TFR “percepito” alla cessazione del rapporto di lavoro, mentre, nel caso in cui il TFR sia conferito ad un fondo di previdenza complementare, la liquidazione non è riconosciuta alla cessazione del rapporto di lavoro, ma alla maturazione dei requisiti per la pensione.
Secondo tale soluzione interpretativa, il TFR avrebbe “natura retributiva, ma se viene conferito nel Fondo Previdenziale dal datore di lavoro, per essere poi erogato da quest'ultimo al lavoratore, assume natura previdenziale”.
Importanti per la predetta soluzione interpretativa sono stati i principi affermati dalle Sezioni Unite (v. Cass., S.U, sent. n. 4684 del 09/03/2015 e Cass., S.U., sent. n. 4949 del 12/03/2015).
Le Sezioni Unite nell’evidenziare la natura previdenziale della prestazione di previdenza integrativa, hanno rilevato quanto segue: «Per quanto concerne i fondi di previdenza integrativa, i versamenti datoriali non sono preordinati all’immediato vantaggio del lavoratore, ma proprio in coerenza con la loro funzione vengono accantonati (e quindi mai direttamente corrisposti) per garantire la funzione del trattamento integrativo in caso di cessazione del rapporto di lavoro, ovvero in caso di sopravvenuta invalidità secondo le condizioni previste dal relativo statuto. L’obbligo del datore di lavoro di effettuare tali versamenti nasce, a ben vedere, da un ulteriore rapporto contrattuale, distinto dal rapporto di lavoro subordinato, finalizzato a garantire, in presenza delle condizioni prescritte, il conseguimento di una pensione integrativa rispetto a quella obbligatoria, pensione integrativa che costituisce certamente un ulteriore beneficio per il lavoratore; esso tuttavia non modifica i diritti e gli obblighi nascenti da rapporto di lavoro e non incide sulle modalità di erogazione delle indennità di fine rapporto. In sostanza il beneficio derivante al lavoratore dal rapporto di previdenza integrativa non è costituito dai versamenti effettuati dal datore di lavoro, ma dalla pensione che, anche sulla base di tali versamenti, lo stesso potrà percepire”.
Le Sezioni Unite hanno altresì precisato che “la contribuzione datoriale non entra direttamente nel patrimonio del lavoratore interessato, il quale può solo pretendere che tale contribuzione venga versata al soggetto indicato nello statuto; ed infatti il lavoratore non riceve tale contribuzione alla cessazione del rapporto, essendo solo il destinatario di un’aspettativa al trattamento pensionistico integrativo, aspettativa che si concreterà esclusivamente ove maturino determinati requisiti e condizioni previsti dallo statuto del fondo”.
In conclusione, la Corte di Cassazione ha posto la seguente questione e cioè “se, tenuto conto che la destinazione del TFR non modifica i diritti e gli obblighi nascenti da rapporto di lavoro, e non incide sulle modalità di erogazione delle indennità di fine rapporto… il titolare dell’assegno divorzile conservi il diritto ad ottenere la quota del TFR maturato in capo al l’ex coniuge anche nel caso in cui quest’ultimo faccia confluire l’intero TFR in un Fondo di previdenza complementare, ovvero se tale scelta comporti l’esclusione del diritto previsto dall’art. 12 bis l. n. 898 del 1970, non percependo l’ex coniuge obbligato al pagamento dell’assegno divorzile alcuna indennità di fine rapporto, ma un capitale o una rendita periodica che non ha natura retributiva ma solo previdenziale, come pure affermato da questa Corte”.
Trattandosi di questione di grande rilievo nomofilattico la Corte ha rimesso la decisione alla discussione in pubblica udienza.
Per leggere il testo integrale dell’ordinanza interlocutoria clicca qui: https://www.cortedicassazione.it/resources/cms/documents/8375_03_2025_civ_oscuramento_noindex.pdf
La Corte d’appello di Torino con la sentenza del 17 marzo 2025 ha accertato e dichiarato la legittimità del licenziamento per giusta causa irrogato a un lavoratore, per aver posto in essere comportamenti di molestia fisica nei confronti di una sua collega sul luogo di lavoro.
I fatti raccontati dalla vittima e riguardanti l’episodio di molestia occorsole - nel caso di specie “abbracciandola e baciandola sulla bocca contro la sua volontà, formulando frasi quali “che bella donna che sei” - confermati poi in sede testimoniale, sono stati trasfusi nella lettera di contestazione disciplinare.
La Corte d’appello nella sentenza in commento ha precisato che in un’ordinaria causa civile, a differenza di quanto accade nel processo penale, la testimonianza della persona offesa non deve trovare una corroborazione esterna.
La deposizione della vittima è di per sé sufficiente quale prova dell’accadimento ‘storico’ di un determinato fatto.
Nella medesima sentenza la Corte ha dato atto, con ampia motivazione, della credibilità della versione resa dalla vittima.
In relazione al comportamento tenuto dalla vittima dopo aver subìto le molestie (nel caso di specie non aver chiesto aiuto al personale di sorveglianza dopo l’accaduto o non aver sporto denuncia dell’accaduto o aver tollerato l’atteggiamento del collega per qualche minuto) la Corte d’appello, nella sentenza in commento, ha chiarito che lo stesso “non può riverberarsi retrospettivamente sulla (e inficiare la) veridicità dell’evento presupposto quand’esso sia stato confermato testimonialmente; se non a pena, per le persone coinvolte in episodi del genere, di non essere pregiudizialmente credute, come ancora diffusamente accade a quante rimangono oggetto di attenzioni sessuali indesiderate”.
La Corte ha, infine, precisato che “in questi delicati contesti, l’atteggiamento susseguente non interferisce di per sé con la verosimiglianza del fatto che lo precede: una persona molestata – se non immaginando, inammissibilmente, l’esistenza in tal senso di un contegno post-evento tipico e ‘ideale’ – può avere mille ragioni per non attivarsi contro il molestatore e per non denunciarlo penalmente, fosse solo per banale tolleranza o per evitare ulteriori noie o per non sopportare il rischio, appunto, di non essere creduta; ma questo, da solo, non costituisce per nulla elemento escludente la verità della molestia patita, e certamente è così nella vicenda qui in esame, se si considera che , da un lato, aveva subito una molestia di non efferata violenza (sicché non c’era poi tutta questa ‘emergenza’ di ricorrere a soccorritori e sorveglianti), e, dall’altro …., non desiderava affatto che l’episodio avesse un qualche seguito”.
Sullo stesso tema leggi anche sul nostro sito “Molestie sessuali nei confronti di una collega: legittimo il licenziamento per giusta causa del lavoratore”
Con la sentenza n. 7128 del17 marzo 2025 la Corte di Cassazione ha enunciato importanti principi di diritto in tema di revocazione della sentenza per contrarietà alla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, nuovo rimedio processuale introdotto con l’art. 391 - quater c.p.c. nei casi di lesione di ‘un diritto di stato della persona’.
1.- I fatti di causa
Il sig. C.C. moriva per un’intossicazione acuta da cocaina mentre si trovava presso la camera dei fermati della Questura di Milano.
I congiunti del sig. C.C. proponevano un giudizio contro il Ministero dell’Interno al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza della morte del loro familiare.
La Corte d’appello di Milano rigettava la domanda risarcitoria.
Anche il ricorso per cassazione proposto dai familiari del defunto veniva rigettato, avendo la Corte di Cassazione confermato la decisione presa dalla sentenza di 2° grado.
I familiari del C.C., vedendosi negata la tutela, adivano la Corte europea dei diritti dell’Uomo che con sentenza del 14 settembre 2023 dichiarava la sentenza della Cassazione contraria alla CEDU.
Visto l’esito positivo del giudizio instaurato davanti alla corte internazionale, i congiunti del C.C. chiedevano, ai sensi del nuovo art. 391 - quater c.p.c., norma di recente introduzione, la revocazione della sentenza emessa dalla Corte di Cassazione.
Nel ricorso i ricorrenti rilevavano che “la violazione accertata dalla Corte europea avrebbe pregiudicato un loro diritto di stato della persona e che l'equa indennità accordata dalla Corte europea ai sensi dell'articolo 41 della Convenzione non sarebbe idonea a compensare le conseguenze della violazione stessa”.
2. - La nozione di ‘diritto di stato della persona’
La questione interpretativa sottoposta allo scrutinio della Corte di Cassazione ha ad oggetto l’ambito di applicabilità dell’art. 391 - quater c.p.c. e, precisamente “l'esatta individuazione dell'estensione della nozione di ‘diritti di stato della persona’, ai quali il nuovo istituto è espressamente limitato”.
La nuova ipotesi di revocazione è stata introdotta dal d.lgs.10 ottobre 2022, n. 149 (‘Riforma Cartabia’) così da adeguare l'ordinamento processuale civile all'obbligo internazionale assunto dallo Stato di conformazione alle decisioni della Corte EDU (art. 46 della CEDU).
Dopo aver ricostruito l’iter legislativo che ha portato all’introduzione nel nostro Paese della nuova ipotesi di revocazione, nella sentenza in commento, la Cassazione ha chiarito che l’ambito di applicazione dell'art. 391quater c.p.c. deve intendersi limitato ai casi in cui “il pregiudizio derivante dalla violazione commessa dallo Stato e concretizzatasi in una sentenza ormai passata in giudicato, ma il cui contenuto sia stato dichiarato contrario alla Convenzione, non sia suscettibile di tutela per equivalente (cioè, di quella che viene definita come "tutela secondaria" dei diritti fondamentali previsti dalla richiamata Convenzione), vale a dire nei casi in cui le misure individuali comportanti il riconoscimento alla parte lesa di un risarcimento in termini economici non siano idonee (o non siano sufficienti, perché non idonee, da sole) a rimuovere gli effetti pregiudizievoli della violazione”.
Lo scopo della norma è quello di consentire di rimuovere, nell'ordinamento interno, esclusivamente gli effetti di sentenze in materia di ‘diritti di stato della persona’, cioè aventi ad oggetto status personali, il cui contenuto sia stato giudicato dalla Corte EDU contrario alla Convenzione.
Ne deriva che per ogni altra situazione soggettiva che non sia qualificabile come ‘diritti di stato della persona’ non può essere ammesso il rimedio straordinario previsto dall’art. 391 - quater c.p.c., essendo invece sempre possibile, per tali situazioni, la tutela per equivalente.
Stabilito l’ambito di applicazione della norma, la Cassazione, nella sentenza in commento, si chiede cosa debba intendersi per ‘diritto di stato della persona’ ai sensi dell’art. 391 - quater c.p.c.
Secondo la tradizionale definizione dottrinale, gli stati della persona sono “le posizioni giuridiche fondamentali che la persona assume nell'ambito della società e del nucleo familiare”, posizioni soggettive che rilevano come presupposti di diritti e doveri della persona stessa”.
Per la Corte di Cassazione non sarebbe possibile invocare la nuova ipotesi di revocazione in tutti i casi in cui la violazione commessa dallo Stato “abbia leso, genericamente, diritti personali o, addirittura, tutti i casi in cui la lesione abbia, in generale, avuto ad oggetto diritti fondamentali non patrimoniali, quand'anche gli stessi presupponessero o derivassero da un determinato status personale”.
L’argomento letterale risulta dirimente, in quanto il legislatore delegato ha fatto espresso riferimento ad ‘un diritto di stato della persona’, espressione che “allude chiaramente ad un diritto che dello stato della persona deve rappresentare, sul piano dell'ordinamento, la diretta implicazione, esprimendo, cioè, in via diretta il contenuto normativo dello stato della persona”.
Ne deriva, secondo la Cassazione, che l’oggetto della tutela revocatoria è dato dalle sole violazioni che si siano risolte nella negazione totale o parziale del diritto di stato della persona, o anche nel tardivo riconoscimento dello status alla persona, con una compromissione insuscettibile di riparazione solo per equivalente, ovvero ancora i casi in cui vi sia stata erronea attribuzione di uno status personale oggettivamente pregiudizievole secondo l'ordinamento o tardivo disconoscimento di esso e la compromissione derivatane per la persona non sia rimediabile con la sola riparazione per equivalente.
Invece, la tutela non può ricomprendere né “il pregiudizio ad un qualunque diritto fondamentale o non patrimoniale, anche se personalissimo, ed anche se presupponente certamente o, comunque, derivante da un determinato status soggettivo del suo titolare, ma leso senza che questo status sia stato direttamente negato o riconosciuto come limitato o riconosciuto tardivamente”, né tantomeno “il pregiudizio derivante ad un qualunque diritto fondamentale o non patrimoniale, anche se personalissimo, la cui lesione non sia stata conseguenza della attribuzione errata di uno status o del tardivo disconoscimento di esso”.
Non può dunque ritenersi ammissibile la revocazione ai sensi dell’art. 391 - quater c.p.c. nel caso di lesione di uno ‘stato soggettivo personale’, “inteso in senso generico ed atecnico come la mera titolarità di un qualsiasi altro diritto, anche se si tratti di diritti fondamentali, inviolabili, di natura personale e non patrimoniale ed anche se eventualmente si tratti di un diritto che presupponga la titolarità di un determinato status personale: diritti la cui natura non implica necessariamente l'insuscettibilità di una tutela per equivalente e che, anzi, in taluni casi, sono tutelabili solo per equivalente, in forma risarcitoria”.
Perché si possa ritenere applicabile la nuova ipotesi di revocazione, la titolarità dello status o la non titolarità dello status devono essere l'oggetto diretto della lesione.
Nel caso di specie, la richiesta risarcitoria dei congiunti del C.C. era invece diretta proprio ad ottenere una compensazione di tipo economico, vale a dire per equivalente, per la perdita del rapporto parentale.
In nessun modo veniva in gioco una lesione diretta dei loro status personali.
Il nuovo istituto non può operare in caso di decisioni nazionali che abbiano accolto o rigettato una domanda volta essa stessa a conseguire una condanna al pagamento di una somma di danaro (sia pure a titolo risarcitorio per la lesione di un diritto fondamentale, anche non patrimoniale), in quanto in tal caso, precisa la Cassazione, “viene richiesta proprio e soltanto una tutela per equivalente (che, dunque, nella specie, non solo è oggettivamente possibile, ma è ritenuta tale dalla stessa parte interessata), ciò che esclude in radice l'operatività della nuova ipotesi di revocazione straordinaria”.
L’utilizzo del nuovo rimedio deve essere limitato ai casi in cui la tutela per equivalente non sia di per sé idonea a rimuovere, da sola, le conseguenze del pregiudizio derivante dalla violazione, trattandosi di un pregiudizio non suscettibile di tutela per equivalente.
Nella sentenza in commento la Corte chiarisce altresì un’altra questione pure attinente ai confini di applicabilità del rimedio previsto dall’art. 391 - quater c.p.c. in relazione alla tipologia di danni richiesti, se patrimoniali o non patrimoniali.
In particolare, è da escludere, afferma la Cassazione, che “la previsione dell'art. 391 - quater c.p.c. possa comprendere anche le violazioni che abbiano leso diritti patrimoniali, in quanto ‘diritto di stato della persona’ è un'espressione che, comunque la si voglia intendere, secondo l'interpretazione ampiamente dominante, certamente non comprende i diritti risarcitori di natura patrimoniale”.
Anche in relazione ai danni non patrimoniali, l’equa soddisfazione, cioè la restitutio in integrum, in forma di tutela c.d. secondaria, mediante risarcimento, è stata in realtà già riconosciuta e liquidata dalla Corte EDU ai congiunti del sig. C.C. ed essa deve ritenersi, afferma la Cassazione, in linea di principio, satisfattiva, cioè idonea a compensare le conseguenze della violazione accertata, in relazione ai danni riconosciuti sussistenti.
Neppure può essere riconosciuto al giudice nazionale adito ex art. 391 - quater c.p.c. il diritto di sindacare, la correttezza della determinazione dell'equa soddisfazione liquidata dalla Corte EDU.
Diversamente si finirebbe per stravolgere la gerarchia stessa e l'ambito delle competenze spettanti ai giudici nazionali e a quelli sovranazionali.
3. – Il principio di diritto enunciato
Nel dichiarare inammissibile il ricorso già per tutte le ragioni sopra esaminate, la Corte di Cassazione ha ritenuto altresì infondati i dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 391 - quater c.p.c. sollevati dai ricorrenti ed in conclusione ha enunciato il seguente principio di diritto:
“la nuova ipotesi di "revocazione per contrarietà alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo", prevista dall'art. 391quater c.p.c., essendo stata introdotta in relazione alle decisioni passate in giudicato il cui contenuto è stato dichiarato dalla Corte europea dei diritti dell'uomo contrario alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell'Uomo e delle Libertà fondamentali ovvero ad uno dei suoi Protocolli, a condizione che la violazione accertata dalla Corte europea abbia pregiudicato un "diritto di stato della persona" e che l'equa indennità eventualmente accordata dalla Corte europea ai sensi dell'articolo 41 della Convenzione non sia idonea a compensare le conseguenze della violazione, può essere invocata esclusivamente nei casi in cui la decisione nazionale abbia avuto ad oggetto una domanda incidente direttamente sul diritto al riconoscimento o alla negazione di uno status soggettivo personale e, quindi, la violazione accertata dalla Corte EDU abbia arrecato un pregiudizio che si risolve nella negazione o nel tardivo riconoscimento di uno status personale al quale si abbia diritto ovvero nell'illegittima attribuzione di uno status personale che si neghi di possedere, in quanto situazioni soggettive non suscettibili di tutela per equivalente; di conseguenza, la revocazione è, in ogni caso, esclusa quando la stessa domanda proposta nel giudizio definito con la sentenza passata in giudicato di cui si invoca la revocazione abbia avuto ad oggetto già essa stessa una tutela meramente risarcitoria o, comunque, per equivalente, e ciò anche se il diritto oggetto della sentenza sia un diritto fondamentale della persona, ma non di stato”.
Per leggere il testo integrale della sentenza della Corte di Cassazione n. 7128 del 17 marzo 2025 clicca qui: https://www.cortedicassazione.it/resources/cms/documents/7128_03_2025_civ_oscuramento_noindex.pdf