Cass. civ. sez. lav., ord. n. 9286/2025 dell’8 aprile 2025

Un lavoratore con la qualifica di operaio viene licenziato; lo stesso giorno del licenziamento, presso la sede aziendale e con l’assistenza di un sindacalista appartenente ad una sigla sindacale cui egli non è iscritto, sottoscrive un verbale di conciliazione.

Successivamente il lavoratore impugna tale verbale ritenendo che non sussistessero i requisiti affinché esso potesse esser fondatamente ritenuto un “verbale sottoscritto in sede sindacale”, con conseguente pretesa inapplicabilità della disciplina dettata dall’art. 2113, quarto comma, Cod. civ.

La decisione della Cassazione

Se la Corte di Appello aveva ritenuto che la sottoscrizione del verbale presso la sede del datore di lavoro non avesse minato l’effettività dell’assistenza sindacale prestata nell’occasione da un sindacalista, la Cassazione, dando continuità al proprio orientamento (cfr. Cass. n. 10065/2024, commentata sul nostro sito, La conciliazione in sede sindacale può essere validamente conclusa presso la sede aziendale?), afferma invece che ai fini dell’inoppugnabilità delle rinunce e delle transazioni aventi ad oggetto diritti del lavoratore previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi “è necessario che l’accordo sia stato raggiunto con un’assistenza sindacale effettiva, tale da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinunci e in quale misura…nonché, nel caso di transazione, a condizione che dall’atto stesso si evincano la questione controversa oggetto della lite e le reciproche concessioni in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell’art. 1965 c.c.”.

Ciò premesso, viene precisato che la sede di stipula, così come l’affiliazione o meno al sindacato cui appartiene il rappresentante sindacale che fornisce assistenza nel caso specifico, non sono requisiti “neutri”, ma concorrono funzionalmente “ad assicurare che la volontà del lavoratore sia espressa in modo genuino e non coartato”.

Quanto sopra in ragione del fatto che il legislatore, con i primi tre commi dell’art. 2113 Cod. civ., ha disciplinato una peculiare forma di protezione del lavoratore attraverso la previsione della indistinta invalidità delle rinunzie e delle transazioni aventi ad oggetto diritti inderogabili, da far valere mediante impugnazione di tali atti da proporre nel termine di decadenza di sei mesi, termine che, per l’appunto, viene appositamente riconosciuto al lavoratore per consentirgli di beneficiare di un adeguato periodo di tempo utile per acquisire pareri professionali e dunque per riflettere sulla effettiva convenienza dell’atto sottoscritto.

 Tale peculiare forma di protezione giuridica, tuttavia, ai sensi di quanto prescrive il quarto comma dell’art. 2113 Cod. Civ., è destinata a non operare “in presenza di adeguate garanzie costituite dall’intervento di organi pubblici qualificati, operanti in sede c.d. protette”, quali la sede giudiziale, le Commissioni di conciliazione presso la Direzione Provinciale del Lavoro, l’Ispettorato Territoriale del Lavoro, le sedi sindacali.

Cionondimeno, afferma la Corte, poiché “la protezione del lavoratore non è affidata unicamente all’assistenza del rappresentante sindacale manca luogo in cui la conciliazione avviene, quali concomitanti accorgimenti necessari al fine di garantire la libera determinazione del lavoratore nella rinuncia a diritti previsti da disposizioni inderogabili e l’assenza di condizionamenti”.

La Cassazione, con la recente ordinanza 23850 del 24 settembre 2024, è tornata ad occuparsi della questione dei limiti del diritto di critica nel rapporto di lavoro, ed in particolare delle espressioni critiche utilizzate dal lavoratore sindacalista nei confronti del datore di lavoro.

Nel caso di specie – a quanto è dato desumere dall’antefatto processuale – il dipendente, nella sua qualità di rappresentante sindacale e coordinatore nazionale Responsabile dei Lavoratori per la Sicurezza ex art. 50 D.Lgs. 81/2008, aveva riportato a un portale on line una serie di dati (in parte poi rettificati) circa i danni subiti dalla clientela e gli infortuni occorsi ai lavoratori. In altro frangente aveva reso una dichiarazione di solidarietà in favore di lavoratori di altra azienda, rivolgendo espressioni critiche nei confronti dell’Amministratore della medesima.

La Cassazione ribadisce il principio secondo cui “il lavoratore che sia anche rappresentante sindacale se, quale lavoratore subordinato, è soggetto allo stesso vincolo di subordinazione degli altri dipendenti, si pone, in relazione all'attività di sindacalista, su un piano paritetico con il datore di lavoro, con esclusione di qualsiasi vincolo di subordinazione, giacché detta attività, espressione di una libertà costituzionalmente garantita dall'art. 39 Cost., in quanto diretta alla tutela degli interessi collettivi dei lavoratori nei confronti di quelli contrapposti del datore di lavoro, non può essere subordinata alla volontà di quest'ultimo; l'esercizio, da parte del rappresentante sindacale, del diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro, garantito dagli artt. 21 e 39 Cost., incontra i limiti della correttezza formale, imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente assicurata (art. 2 Cost.), di tutela della persona umana; solo ove tali limiti siano superati con l'attribuzione all' impresa datoriale o a suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore può essere legittimamente sanzionato in via disciplinare” (in motivazione sono richiamati, tra in numerosi precedenti di legittimità, Cass. n. 7471/2012; Cass. n. 19176/2018; e, in precedenza, Cass. n. 11436/1995).

Giova peraltro rammentare che l'apprezzamento in ordine al superamento dei limiti di continenza e pertinenza stabiliti per un esercizio lecito della critica rivolta dal lavoratore nei confronti del datore costituisce valutazione rimessa al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove congruamente motivato (in questi termini, Cass. civile, sez. lav., 18 gennaio 2019, n. 1379).

L’ordinanza in commento, applicando i principi di cui sopra, ritiene sorrette da congrua motivazione le conclusioni della Corte d’Appello di Roma, la quale aveva escluso che il lavoratore avesse attribuito comportamenti apertamente disonorevoli o riferimenti denigratori ai dirigenti della società ricorrente, riconducendo le dichiarazioni oggetto di addebito al legittimo esercizio del diritto di critica sindacale.

La Corte esclude poi che la solidarietà espressa nei confronti di lavoratori di altra azienda esorbiti dal ruolo sindacale. Infatti, al diritto di critica sindacale, purché sempre non esorbitante i limiti del principio di continenza formale, è connaturata l’espressione di opinioni personali e, in ipotesi, sgradite al datore di lavoro, “dovendosi bilanciare l'interesse che si assume leso con quello a che non siano introdotte limitazioni alla libera espressione del pensiero costituzionalmente garantito”.

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