Nel caso di malattia contratta a seguito della somministrazione di un vaccino il danneggiato può invocare diversi regimi di responsabilità, ma non potrà operare commistioni tra gli stessi.

Questo il principio affermato dalla Cassazione nella sentenza n. 8224 del 28 marzo 2025.

Il caso

La vicenda processuale trae origine dalla domanda di risarcimento proposta nei confronti di una casa farmaceutica da un paziente per i danni causati da una encefalite insorta successivamente alla somministrazione del vaccino antinfluenzale.

Il Tribunale, prima, e la Corte d’Appello, poi, avevano accertato la responsabilità del produttore ai sensi degli artt. 114 ss. del D.Lgs. 206/05 (Codice del Consumo), sulla base della considerazione che la casa farmaceutica non aveva effettuato “studi in ordine agli effetti del farmaco sulla popolazione anziana e con comorbilità diabetica e neurologica”. Dunque, la difettosità del prodotto consisteva “nella carenza di esigibili studi clinici aggiornati sugli effetti del vaccino nella popolazione anziana con comorbilità di diabete, cardiopatia e discopatie, come nel caso in esame”.

La ricorrente in cassazione ha imputato alla Corte territoriale di avere adottato una soluzione frutto della combinazione di discipline tra loro diverse. In particolare, “dopo aver dato per provato il difetto del vaccino, ha applicato la disciplina dell'onere della prova liberatoria individuandone correttamente il referente normativo nell'art. 118 cod. cons., ma, poi, ricavandone il contenuto al di fuori di tale previsione normativa, in qualche misura riconducendolo al dettato dell'art. 2050 c.c.”.

Il regime della responsabilità da prodotto difettoso

La Corte di Cassazione muove dalla individuazione delle linee di demarcazione tra il regime della responsabilità del produttore per prodotto difettoso (sul quale si veda da ultimo E. Bellisario, Responsabilità per i prodotti difettosi, in Enc. dir. – I tematici, Responsabilità civile, VII, diretto da C. Scognamiglio, 2024, 1240 ss. nonché, ivi, la voce di R. Carleo, Responsabilità da produzione e commercializzazione dei farmaci (disciplina europea), 1106 ss.) e quello della responsabilità aquiliana ex art. 2043 c.c., nella particolare articolazione della responsabilità per l’esercizio di attività pericolose, di cui all’art. 2050 c.c. (su di esso si veda E. Vincenti, Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose, in Enc. dir. – I tematici, cit., 1285 ss.

Viene, in primo luogo, in rilievo la disciplina dettata dagli artt. 114-127 D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, ancorata alla direttiva 85/374/CEE (non essendo ovviamente applicabile al caso in esame la direttiva (UE) 2024/2853 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2024, della quale ci siamo diffusamente occupati sul nostro sito: v. Le nuove norme europee sulla responsabilità per danno da prodotto difettoso e La responsabilità per prodotto difettoso tra produttore e rivenditore, non ancora entrata in vigore).

Nella prospettiva assunta dalla Corte, assume carattere centrale la nozione di difetto di cui all’art. 117 cod. cons., la quale “esprime un significato ambivalente che si traduce sia nella sicurezza del prodotto da apprezzarsi rispetto agli standard richiesti dalla normativa di settore, sia in una concezione in termini relazionali, da apprezzarsi in base alle legittime aspettative del consumatore”.

Dunque, che “un prodotto sia formalmente "innocuo", è condizione necessaria ma non sufficiente affinché questo possa essere considerato non difettoso, essendo a tal fine necessario apprezzarne anche la sicurezza da un punto di vista sostanziale e relazionale, rispetto all'uso che si può ragionevolmente prevedere dello stesso”.

In questa prospettiva, “il parametro sul quale calibrare le legittime aspettative del consumatore, ai fini dell'accertamento sulla dannosità del prodotto, è dato dalle informazioni indispensabili, che è onere del produttore veicolare al momento della sua immissione in commercio”. Solo un'effettiva trasparenza informativa sui rischi del prodotto garantisce la libertà di autodeterminazione del ‘contraente debole’ e, nel caso di prodotti farmaceutici, “può essere assicurata solo rendendolo edotto dei rischi connessi all'utilizzo del prodotto, in rapporto ad eventuali condizioni personali in cui egli può versare”.

È dunque fatto obbligo al produttore di adoperarsi diligentemente “per reperire tutti i dati informativi che, al momento dell'immissione in commercio, siano accessibili e che consentano di fornire una prospettazione dei rischi quanto più possibile individualizzata”.

Il referente normativo della prova liberatoria richiesta al produttore si rinviene nell’art. 118 cod. cons., che, tra l’altro, esclude la responsabilità del produttore

  • se il difetto che ha cagionato il danno non esisteva quando il produttore ha messo il prodotto in circolazione” (lett. b);
  • se lo stato delle conoscenze scientifiche e tecniche, al momento in cui il produttore ha messo in circolazione il prodotto, non permetteva ancora di considerare il prodotto come difettoso” (lett. e). 

Pertanto, “il produttore beneficia di una mitigazione dell'onere probatorio a suo carico, potendo sottrarsi alla responsabilità, se gli studi disponibili al momento della messa in circolazione del prodotto non consentissero di risalire alla matrice dei potenziali danni connessi all'uso dello stesso, in ragione di una situazione di incertezza scientifica”.

Non grava quindi sul produttore il “rischio da sviluppo”, per cui la difettosità è causa di responsabilità del produttore se originaria, avuto riguardo al momento dell’immissione in commercio.

Devono qui richiamarsi Cass., ord. n. 33984 del 23 dicembre 2024 (con commento sul nostro sito, dal titolo Il produttore farmaceutico è responsabile se il bugiardino non indica i rischi per l’uso eccessivo del farmaco?), la quale ha chiarito che “l'informazione che si traduca in una mera avvertenza circa il fatto che un determinato evento possa verificarsi non vale ad esonerare il produttore da responsabilità”.

Il regime di responsabilità per l’esercizio di attività pericolose (art. 2050 c.c.)

Nella ricognizione della disciplina della responsabilità per l’esercizio da attività pericolose la sentenza in commento muove dalla considerazione che si tratta di una responsabilità che prescinde dalla colpa e assume le connotazioni di una responsabilità oggettiva. Infatti, al fine di liberarsi dalla responsabilità, “per il danneggiante non è sufficiente dimostrare di aver rispettato la normativa vigente nell'esercizio dell'attività o di non aver commesso alcuna negligenza; occorre invece provare positivamente di aver fatto tutto il possibile per prevenire il danno” (tra le altre, si cita Cass. n. 1931/2017).

Nel caso di commercializzazione di prodotti è imposto al produttore “un obbligo di massima cautela e aggiornamento costante sulle misure idonee a prevenire il danno che sfocia nell'obbligo di astenersi dal porre il bene a disposizione dei consumatori in situazioni di incertezza scientifica”.

In questo ambito il c.d. rischio da sviluppo grava sul danneggiante, “tenuto costantemente ad aggiornarsi sullo stato delle conoscenze scientifiche rebus sic stantibus, sicché il suo onere di attivazione diligente non si arresta al momento dell'immissione in commercio, ma si proietta oltre”.

Nello stesso senso di è espressa ancora di recente la Cassazione, nella sentenza n. 6587 del 7 marzo 2019, secondo cui “ai fini dello scrutinio in ordine alla sussistenza della prova liberatoria di cui all'art. 2050 c.c. (e cioè la prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno), è necessario valutare, da un lato, la rigorosa osservanza di tutte le sperimentazioni e i protocolli previsti dalla legge prima della produzione e della commercializzazione del farmaco (questione nella fattispecie, non controversa); dall'altro l'adeguatezza della segnalazione dell'effetto indesiderato, dovendosi solo per completezza qui precisare che non una qualunque informativa circa i possibili effetti collaterali del farmaco possa scriminare la responsabilità dell'esercente, essendo invece necessario che l'impresa farmaceutica svolga una costante opera di monitoraggio e di adeguamento delle informazioni commerciali e terapeutiche, allo stato di avanzamento della ricerca, al fine di eliminare o almeno ridurre il rischio di effetti collaterali dannosi e di rendere edotti nella maniera più completa ed esaustiva possibile i potenziali consumatori”.

Cumulo delle responsabilità … ma non commistione

La Cassazione, passati in rassegna i tratti caratteristici dei due regimi di responsabilità, osserva che è la stessa legislazione consumeristica a rendere possibile per il danneggiato il ricorso a regimi di responsabilità diversi da quello disciplinato dagli artt. 114 e ss. cod. cons. (v. art. 127, comma 1, cod. cons., a norma del quale "le disposizioni del presente titolo non escludono, né limitano i diritti attribuiti al danneggiato da altre leggi").

Restano, quindi, applicabili altri regimi di responsabilità, come la responsabilità aquiliana, ex art. 2043 c.c., dove l'imputazione dell'evento in capo al danneggiante avviene in base a un criterio soggettivo, individuato nella colpa o nel dolo, nonché, parimenti impregiudicata resta l'applicazione della responsabilità per l'esercizio di attività pericolose di cui all'art. 2050 c.c.

Ciò che non è consentito è “di beneficiare di commistioni tra i vari regimi di responsabilità, così da dare luogo ad una disciplina coniata ad hoc e non corrispondente a quella dettata dal legislatore per le singole fattispecie di responsabilità”.

Fatte tali premesse, la Cassazione censura l’iter logico-argomentativo proposto dalla Corte d’Appello, la quale, pur muovendo dalla ripartizione dell’onere probatorio proprio della responsabilità aquiliana (che pone a carico del danneggiato la prova dell’elemento soggettivo della "colpa"), ha intersecato tale regime di responsabilità “con quanto previsto dalla disciplina consumeristica (espressamente richiamata) in punto (non solo di difettosità del prodotto, ma anche e soprattutto) di prova liberatoria a carico del produttore, rammentando, per l'appunto, che questi deve dimostrare "che il difetto non esisteva quando apposto il prodotto in circolazione, o che all'epoca non è una riconoscibile in base allo stato delle conoscenze tecnico scientifico".

Inoltre, anche nella prospettiva della responsabilità per prodotto difettoso, la Corte territoriale ha assunto un contenuto della prova liberatoria divaricato da quanto previsto dall’art. 118 cod. cons.

Infatti, nell’imputare al produttore di aver posto in commercio il vaccino “pur in assenza, al momento di messa in circolazione del vaccino, di dati scientifici esplicativi dei nessi tra l'insorgenza di patologie diabetiche/neurologiche e la somministrazione del vaccino”, e non affrontando i profili dell’informazione al consumatore (come richiesto dalla disciplina consumeristica). la Corte d’Appello ha finito per “snaturare la stessa richiamata responsabilità per danno da prodotto difettoso, facendola sostanzialmente confluire in quella per lo svolgimento di attività pericolose, ex art. 2050 c.c., addossando indebitamente il c.d. rischio da sviluppo ad un soggetto al quale esso è estraneo”, pur avendo escluso in premessa trattarsi di prodotto pericoloso.

La Cassazione conclude, invece, che – ferma la possibilità di invocare una responsabilità diversa da quella prevista dalla disciplina consumeristica – una volta individuato il regime di responsabilità applicabile, sulla base delle allegazioni delle parti, lo stesso “dovrà, però, trovare applicazione in coerenza con la disciplina per esso specificamente dettata dal legislatore, senza potersi operare commistioni tra regimi di responsabilità diversamente regolati”. Sul tema della risarcibilità dei danni da somministrazione del vaccino, si veda anche, sul nostro sito: Il vaccino sicuro può essere causa di danno risarcibile.

In una recente pronuncia la Corte di Cassazione ha fornito le indicazioni per rispondere a tale domanda (ordinanza n. 5741 del 5 marzo 2025).

Il responsabile di una filiale di un istituto di credito aveva proposto appello avverso la sentenza che aveva respinto la sua opposizione avverso il decreto sanzionatorio emesso dal Ministero dell’Economia e delle Finanze in relazione all’omessa segnalazione all’Ufficio Italiano Cambi di operazioni sospette, commessa nella sua qualità di responsabile pro tempore della filiale.

Le operazioni sospette, la cui segnalazione era stata omessa, riguardavano numerose movimentazioni di accredito e addebito mediante assegni e denaro contante per oltre 5 milioni.

La Corte d’appello aveva accolto il gravame e, in riforma della sentenza, aveva annullato il decreto.

Il Ministero aveva così proposto ricorso per cassazione, deducendo, tra l’altro, la violazione o falsa applicazione dell'art. 3, comma 2, della legge n. 197/1991 e delle disposizioni operative del c.d. Decalogo della Banca d'Italia. Secondo il ricorrente, l’intento del legislatore – anche alla luce della finalità cautelare e general-preventiva della disciplina - era quello di ancorare l'obbligo di segnalazione ad una valutazione complessiva da parte dell'operatore di tutti gli elementi a sua disposizione; la segnalazione, dunque, non sarebbe di per sé finalizzata a denunciare fatti illeciti, bensì concepita come comunicazione utile ad innescare eventuali ed ulteriori indagini, in un'ottica di gestione del rischio.

La Corte di Cassazione – nel reputare fondate le censure del Ministero - ha ricordato che lo scopo al quale tende la normativa in esame è quello di contrastare i fenomeni criminali, limitando l'uso del denaro contante (e dei titoli al portatore) nelle transazioni, prevenendo “l'utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio”. A questo fine, il legislatore (cfr. D.L. 3 maggio 1991, n. 143, conv. con modif. dalla legge 5 luglio 1991, n. 197) ha inteso reprimere alcune condotte di pericolo, fra le quali quelle operazioni che “per caratteristiche, entità, natura, o per qualsivoglia altra circostanza... induca(no) a ritenere” la possibile provenienza di denaro, beni o utilità, oggetto di dette operazioni, da taluno dei reati contemplati dagli artt. 648-bis e 648-ter c.p.

Il soggetto tenuto a segnalare simili operazioni – precisa la Cassazione - è “il responsabile della dipendenza”, il quale ne riferisce al “titolare dell'attività” (il responsabile legale della banca intermediaria) cui spetta il potere di valutare le segnalazioni e di trasmetterle, solo se le ritenga fondate, in base all'insieme degli elementi a disposizione.

Tanto premesso, come evidenziato dal c.d. Decalogo della Banca d'Italia del gennaio 2001 disponibile nel periodo di tempo in cui il ricorrente in primo grado era in servizio (documento che pur non allargando né integrando le disposizioni normative, nella parte in cui introduce una casistica esemplificativa di anomalie formali delle operazioni bancarie prevede l'obbligo dell'intermediario di procedere, in presenza di tali anomalie, ad ulteriori approfondimenti al fine di formulare una valutazione sulla natura delle operazioni in base alle altre informazioni di cui dispone) “gli intermediari effettuano l'analisi del grado di anomalia di una operazione con riferimento alle caratteristiche del cliente che la pone in essere. Il dato oggettivo va integrato con le informazioni sul cliente in possesso dell'intermediario, nel valutare la coerenza e la compatibilità dell'operazione con il profilo economico-finanziario che deve essere dichiarato dal cliente medesimo (...)".

All'epoca dei fatti contestati non era ancora in vigore il canone dell'adeguata verifica introdotto dal D.lgs. n. 231/2007; ma è anche vero – si legge nella pronuncia - che già il citato Decalogo della Banca d'Italia avvertiva che "La valutazione delle operazioni è effettuata in base al patrimonio informativo sulle capacità e sulle necessità economiche del cliente in possesso degli intermediari; questi ultimi, pertanto, non devono farsi carico di ulteriori attività di accertamento, di competenza delle Autorità di ciò istituzionalmente incaricate".

La Corte ha poi ribadito che, in tema di disciplina antiriciclaggio, l'obbligo di segnalazione, a carico del responsabile di dipendenza, ufficio o altro punto operativo, non è subordinato all'evidenziazione dalle indagini preliminari dell'operatore e degli intermediari di un quadro indiziario di riciclaggio, e neppure all'esclusione, in base al loro personale convincimento, dell'estraneità delle operazioni ad un'azione delittuosa, “ma ad un giudizio obiettivo sull'idoneità di esse ad eludere le disposizioni dirette a prevenire e punire l'attività di riciclaggio”. L’intermediario, dunque, deve controllare che sussistano elementi tali da far ritenere sospetta l'operazione intesa nella sua globalità.

La sentenza impugnata – ha concluso la Corte – non si era attenuta ai citati principi; pertanto, è stata cassata, con rinvio alla Corte d'Appello in diversa composizione.

Il 18 novembre 2024 è stata pubblicata sulla Gazzetta dell’Unione Europea la direttiva 2024/2853 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 ottobre 2024, sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi, che abroga la direttiva 85/374/CEE.

I punti principali della direttiva che avevamo individuato nel dare notizia dell’adozione del testo da parte del Consiglio (In arrivo nuove norme sulla responsabilità per danno da prodotto difettoso) sono stati confermati. In particolare:

  • la definizione di ‘prodotto’ (art. 4) viene estesa al software e ai file per la fabbricazione digitale, ricomprendendo “ogni bene mobile, anche se integrato in un altro bene mobile o in un bene immobile o interconnesso con questi; include l’elettricità, i file per la fabbricazione digitale, le materie prime e il software”;
  • il diritto al risarcimento (art. 6) si applica solo alle seguenti tipologie di danno: a) morte o lesioni personali, compresi i danni psicologici riconosciuti da un punto di vista medico; b) danneggiamento o distruzione di qualsiasi bene, tranne: i) il prodotto difettoso in sé; ii) un prodotto danneggiato da un componente difettoso che è integrato in tale prodotto o interconnesso con questo dal fabbricante di tale prodotto o sotto il controllo di tale fabbricante; iii) i beni usati esclusivamente a fini professionali; c) distruzione o corruzione di dati non usati a fini professionali;
  • un prodotto è considerato difettoso se non offre la sicurezza che un consumatore può legittimamente attendersi o che è prevista dal diritto dell’Unione o nazionale e, nel valutare il carattere difettoso, sono prese in considerazioni tutte le circostanze, comprese quelle elencate all’art. 7 (ad esempio, l’uso ragionevole del prodotto, le specifiche esigenze del gruppo di utenti cui è destinato);
  • nel caso di prodotto riparato e aggiornato al di fuori del controllo del fabbricante originario, l'impresa o la persona che apporta la modifica sarà ritenuta responsabile;
  • la persona danneggiata potrà chiedere l’accesso ad elementi di prova pertinenti a disposizione del fabbricante; il giudice potrà ordinare all’azienda di rivelare le informazioni “necessarie e proporzionate” per aiutare le vittime di danni con le richieste di risarcimento;
  • per garantire che i consumatori siano risarciti per i danni causati da un prodotto fabbricato al di fuori dell'UE, l'impresa che importa il prodotto o il rappresentante con sede nell'UE del fabbricante estero potrà essere ritenuta responsabile dei danni;
  • si presume l’esistenza del nesso di causalità tra il carattere difettoso del prodotto e il danno nel caso in cui sia stato provato che il prodotto è difettoso e che la natura del danno cagionato è compatibile con il difetto in questione (art. 10); se il consumatore danneggiato incontrerà difficoltà eccessive per dimostrare il carattere difettoso del prodotto o il nesso causale tra il carattere difettoso e il danno, il giudice potrà presume il carattere difettoso del prodotto o il nesso di causalità tra il carattere difettoso e il danno.

Qui il testo pubblicato.

Gli Stati membri dovranno conformarsi alla direttiva entro il 9 dicembre 2026.

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