La persistenza nel sito web di una testata giornalistica della risalente notizia del coinvolgimento di un soggetto in un procedimento penale - pubblicata nell’esercizio legittimo del diritto di cronaca, ma non aggiornata con i dati relativi all’esito di tale procedimento - non integra, di per sé, un illecito idoneo a generare una pretesa risarcitoria. Tuttavia, il soggetto al quale la notizia si riferisce ha diritto ad attivarsi per chiederne l’aggiornamento o la rimozione, con la conseguenza che l’ingiustificato rifiuto o ritardo da parte del titolare del sito è idoneo a comportare il risarcimento del danno patito successivamente alla richiesta.

Questa è la conclusione cui è giunta la Corte di Cassazione in una recente pronuncia (sent. n. 6116 del 1° marzo 2023) nell’ambito della quale ha fatto il punto sul – necessario – bilanciamento tra il diritto di cronaca e il diritto all’oblio.

La vicenda originava dalla domanda proposta dal ricorrente, in proprio e quale legale rappresentante della Società, che aveva agito con ricorso in via d’urgenza per ottenere la cancellazione dal sito web di un quotidiano di un articolo avente ad aggetto un procedimento penale avviato nei suoi confronti, o la sua rettifica mediante integrazione con la notizia di essere stato successivamente assolto.

La Corte di Cassazione ha così affrontato la questione della configurabilità di una lesione della reputazione e di una correlata pretesa risarcitoria a seguito nella permanenza nel sito web di una testata giornalistica di una notizia vera, ma datata e non aggiornata.

Nel farlo, la Suprema Corte ha richiamato, da un lato, gli artt. 7 d. lgs. n. 196/2003 (secondo cui l’interessato ha diritto di ottenere l’aggiornamento o la cancellazione) e 17 Regolamento UE n. 679/2016 (che fa parimenti riferimento al diritto dell'interessato a ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati che lo riguardano, al quale si correla il dovere del secondo di provvedervi senza ingiustificato ritardo) e, dall’altro, alcune precedenti pronunce dalla stessa rese in materia di diritto all’oblio.

In particolare, la Corte ha richiamato Cass. n. 5525/2012 che ha affermato il diritto dell’interessato a chiedere ed ottenere un aggiornamento dei dati che lo riguardano e anche la cancellazione di notizie dai siti internet; e Cass. n. 13161/2016 che, invece, ha riconosciuto la configurabilità del diritto al risarcimento del danno,  con una motivazione che tiene conto sia dell’esaurimento dell’interesse a mantenere la notizia sia della mancata adesione del titolare del sito alla diffida.

Su tali premesse, la Cassazione ha affermato che, sebbene non si possa affermare in termini generali un obbligo di costante aggiornamento della notizia o di rimozione della stessa una volta che sia trascorso un determinato lasso di tempo, deve tuttavia riconoscersi alla persona interessata dalla persistenza di una pubblicazione che reputi a sé pregiudizievole, il diritto di tutelare la propria reputazione e di richiedere l'aggiornamento del sito o la rimozione della notizia.

Ne consegue che, una volta che sia stata formulata tale richiesta, il rifiuto ingiustificato di aggiornamento o rimozione è idoneo ad integrare una condotta illecita tale da giustificare il risarcimento del danno prodottosi a partire dalla richiesta di aggiornamento/rimozione (danno che ovviamente va allegato e provato, anche in via presuntiva).

Si tratta di una soluzione che – come ha evidenziato la stessa Corte - realizza un ragionevole bilanciamento dei contrapposti interessi, anche alla luce delle disposizioni normative sopra richiamate che fanno discendere il dovere del titolare del trattamento di attivarsi per la modifica del dato dall’iniziativa dell’interessato.

“Tutti gli atti, di qualsiasi genere siano, che arrechino un danno agli altri senza una causa giustificata, si possono a giusto titolo controllare – e, nei casi più importanti, li si deve assolutamente controllare – con i nostri sentimenti di riprovazione e, se occorre, con un nostro intervento attivo”.

John Stuart Mill lo scriveva nel 1859, in un’epoca in cui il world wide web non esisteva.

Ora esiste, ma il principio vale lo stesso.

Il web, si sa, non dimentica, e gli strumenti per l’intervento attivo (per fortuna) ci sono.


Il termine di decadenza di tre anni per la proposizione di domanda di indennizzo del danno da vaccino decorre dal momento della conoscenza, in capo al danneggiato, della indennizzabilità del danno. Su queste premesse la Corte Costituzionale, con la sentenza 6 marzo 2023, n. 35, in riferimento agli artt. 2 e 32 Cost., ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, co. 1, Legge 25 febbraio 1992, n. 210, nella parte in cui fa decorrere il termine triennale dalla sola conoscenza del danno e non anche della sua indennizzabilità.

La vicenda processuale e l’ordinanza di remissione   

I Giudici del merito avevano ritenuto corretto applicarsi all’indennizzo per danno vaccinale, richiesto oltre il termine triennale di legge, il criterio della decadenza c.d. mobile, in base al quale la causa estintiva del diritto indennitario opera limitatamente ai ratei interni al triennio.

La Corte rimettente – considerato che il criterio della decadenza c.d. mobile, stabilito per i trattamenti pensionistici dall’art. 47, co. 6, D.P.R. 639/70, non possa essere esteso in via analogica all’indennizzo da vaccino – ha rilevato come, in forza di un’interpretazione letterale della norma, avrebbe dovuto ritenersi la parte istante decaduta dal diritto all’intero inennizzo. Osserva, altresì, la Corte di legittimità che, stante “l’analogo fondamento costituzionale” delle due erogazioni, sarebbe irragionevole la disparità di trattamento sul piano dell’effetto decadenziale della tutela indennitaria, frustrando la ratio della tutela medesima.

Pertanto, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con ordinanza del 17 gennaio 2022, n. 33 ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale della L. 25 febbraio 1992, n. 210, art. 3, co. 1, in riferimento agli artt. 2, 3, 32 e 38 Cost., nella parte in cui non prevede che la decadenza triennale del diritto all'indennizzo per danni vaccinali abbia effetto limitato ai ratei interni al triennio.

L’equo indennizzo e il diritto alla salute

La sentenza in commento muove dal principio secondo cui “uno degli elementi essenziali affinché un trattamento sanitario obbligatorio di tipo vaccinale sia conforme all'art. 32 Cost. consiste nella previsione di un'equa indennità in favore del soggetto danneggiato” (così, da ultimo, Corte Cost., sent. n. 15 e n. 14 del 2023).

In questa prospettiva vanno letti i numerosi arresti della Corte Costituzionale sollecitata a pronunciarsi sull’estensibilità del diritto all’indennizzo in caso di lesioni conseguenti a vaccinazioni non ricomprese nella lista di quelle obbligatorie. 

In particolare, la Corte Costituzionale, nella sentenza 22 novembre 2017, n. 268 – che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 L. 210 del 1992 nella parte in cui non prevede il diritto di indennizzo in favore di coloro che abbiano subito un danno alla salute, essendosi sottoposti a vaccino antinfluenzale – ha osservato che “la ragione determinante del diritto all'indennizzo non deriva dall'essersi sottoposti a un trattamento obbligatorio, in quanto tale; essa risiede piuttosto nelle esigenze di solidarietà sociale che si impongono alla collettività, laddove il singolo subisca conseguenze negative per la propria integrità psico-fisica derivanti da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato) effettuato anche nell'interesse della collettività”.

Le sentenze n. 27 del  4 marzo 1998 e n. 423 del 18 ottobre 2000, già in precedenza, avevano dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 1 L. 210/92 nella parte in cui non prevede l’indennizzo in favore di soggetti che hanno subito lesioni in conseguenza, rispettivamente, delle vaccinazioni antipolio e antiepatite B prima che le stesse divenissero obbligatorie. Da ultimo, Corte cost., Sent. 23 giugno 2020, n. 118 ha esteso il diritto all’indennizzo a favore di chi abbia riportato lesioni a causa della vaccinazione contro il contagio dal virus dell’epatite A.

Di recente, poi, e sulla base delle considerazioni di cui sopra, la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con ordinanza del 30 maggio 2022, n. 17441 (commentata sul nostro sito: Indennizzo e vaccini non obbligatori: la parola alla Corte Costituzionale) ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione del diritto all'indennizzo anche ai soggetti che abbiano subito lesioni e/o infermità, da cui siano derivati danni irreversibili all'integrità psico-fisica, per essere stati sottoposti a vaccinazione non obbligatoria, ma raccomandata, antimeningococcica.

Il Supremo Collegio rileva che  la protezione individuale derivante dall’indennizzo, “completa il patto di solidarietà … tra individuo e collettività in tema di tutela della salute e, come già detto, rende più serio e affidabile ogni programma sanitario volto alla diffusione dei trattamenti vaccinali, al fine della più ampia copertura della popolazione”.

Le conclusioni della Consulta

La sentenza in commento osserva che “le esigenze di solidarietà sociale e di tutela della salute del singolo, poste a fondamento della disciplina introdotta dalla legge n. 210 del 1992, portano a ritenere che la conoscenza del danno, che segna il dies a quo del triennio per la presentazione della domanda amministrativa, suppone che il danneggiato abbia acquisito consapevolezza non soltanto dell'esteriorizzazione della menomazione permanente dell'integrità psico-fisica e della sua riferibilità causale alla vaccinazione, ma anche della sua rilevanza giuridica, e quindi dell'azionabilità del diritto all'indennizzo”.  

Dal momento in cui non è possibile richiedere l’indennizzo per i pregiudizi derivanti da vaccinazione non obbligatoria, sino alla introduzione di specifica disposizione legislativa ovvero sino alla declaratoria di illegittimità costituzionale con riguardo alla singola vaccinazione (non obbligatoria), colliderebbe con la garanzia costituzionale del diritto alla prestazione indennitaria, e conla ratio solidaristica alla stessa sottesa, far decorrere il relativo termine decadenziale prima del verificarsi di quei presupposti.  

Sulla base di questi rilievi, d’altronde, l’art. 3, co. 3, L. 362 del 1999 ha fissato il dies a quo del termine di decadenza dalla domanda di indennizzo per i danni da vaccinazione antipoliomelitica (a seguito dell’intervento della citata sentenza della Corte Costituzionale n. 27 del 1998), intercorsi in epoca antecedente alla introduzione dell’obbligo vaccinale, dall’entrata in vigore della Legge n. 362 del 1999. 

Nella medesima prospettiva, le Sezioni Unite, con sentenza del 22 luglio 2015, n. 14352, hanno ritenuto che il termine di decadenza triennale per l’indennizzo correlato a epatiti post-trasfuzionale dovesse decorrere dall’entrata in vigore della Legge (art. 1, co. 9, L. 238 del 1997) che tale tutela aveva riconociuto.

Sulla base delle medesime considerazioni, dunque, la sentenza in commento conclude che “L'effettività del diritto alla provvidenza dei soggetti danneggiati da vaccinazioni impone, pertanto, di far decorrere il termine perentorio di tre anni per la presentazione della domanda, fissato dall'art. 3, comma 1, della legge n. 210 del 1992, dal momento in cui l'avente diritto risulti aver avuto conoscenza dell'indennizzabilità del danno. Prima di tale momento, infatti, non è possibile che il diritto venga fatto valere, ai sensi del principio desumibile dall'art. 2935 cod. civ.”.

Con la sentenza n. 5657 del 23 febbraio 2023 le Sezioni Unite della Cassazione si sono espresse in merito alla meritevolezza ai sensi dell’art. 1322 c.c. di un contratto di leasing immobiliare con clausola di ‘rischio cambio’ in valuta estera, escludendone la natura di strumento finanziario derivato.

I fatti di causa

Il caso esaminato dalla Corte riguarda la validità o meno di un contratto di leasing immobiliare in valuta estera (franco svizzero) con clausola di ‘rischio cambio’.

In primo grado, in seguito all’opposizione a decreto ingiuntivo promossa dalla soc. utilizzatrice, il Tribunale di Udine aveva ritenuto che la clausola in cui era prevista la variazione del canone in funzione sia del tasso LIBOR che del tasso di cambio tra l'Euro ed il franco svizzero contenesse in realtà due strumenti finanziari derivati, autonomi rispetto al contratto di leasing. Pertanto, il contratto doveva ritenersi nullo a causa della violazione degli obblighi di informazione precontrattuale prescritti dal d.lgs. 58/98.

L’impugnazione proposta dalla concedente è stata rigettata dalla Corte d’appello di Trieste, seppur con motivazione diversa da quella del Tribunale.

Secondo la Corte d'appello l'intero contratto sottoposto al suo esame era da configurare come “una sorta di swap”, da qualificarsi come un contratto ‘aleatorio’ e rientrante nel genus delle scommesse.

La Corte ha poi aggiunto che “la clausola di ancoraggio del canone al tasso di cambio tra franco svizzero ed Euro era "astrusa, macchinosa, complessa e oscura", e provocava uno "squilibro nelle prestazioni", in quanto la formula di calcolo del "rischio cambio" differiva a seconda che la variazione fosse favorevole o sfavorevole al concedente; che il contratto era stato qualificato come "contenente elementi riconducibili a strumenti finanziari derivati" anche dal consulente d'ufficio nominato in primo grado; che al momento della stipula - sempre ad avviso del c.t.u. - era "prevedibile un apprezzamento del franco" rispetto all'Euro”.

Ciò premesso, la Corte d'appello accoglieva l'opposizione al decreto ingiuntivo sulla base del fatto che la clausola di rischio cambio era “invalida ex art. 1322, comma 2, c.c.”, e non già perché il contratto fosse nullo a causa della violazione degli obblighi di informazione precontrattuale prescritti dal d. lgs. 58/98, come invece aveva ritenuto il Tribunale.

L’ordinanza interlocutoria

In seguito al ricorso per cassazione promosso dalla società concedente, con ordinanza interlocutoria 16 marzo 2022 n. 8603 la Terza Sezione civile della Cassazione ha rimesso gli atti al Primo Presidente, affinché fosse valutata l'opportunità di assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Nella predetta ordinanza, ravvisata l'esistenza di contrastanti decisioni circa la validità di clausole come quella in esame, è stato sollecitato l’intervento delle Sezioni Unite in merito alle seguenti questioni:

  • a) se la clausola di cui si discorre sia un mero meccanismo di indicizzazione, oppure costituisca una "scommessa", o comunque abbia una finalità speculativa”;
  • b) se la suddetta clausola muti la causa del contratto di leasing, "inquinandola", ed in questo caso con quali effetti”;
  • c) se la relativa pattuizione, a causa della sua oscurità, violi i doveri di correttezza e buona fede da parte del predisponente”.

Il giudizio di meritevolezza e lo ‘scopo pratico’ del contratto

Le Sezioni Unite hanno ritenuto fondato il secondo motivo di ricorso con cui il ricorrente aveva censurato la sentenza impugnata per violazione dell’art. 1322 c.c.

Il giudizio di “meritevolezza” di cui all'art. 1322, comma 2, c.c., dicono le Sezioni Unite, richiamando un orientamento consolidato (S.U. 4222/2017), è un giudizio che deve investire non il contratto in sé, ma il risultato che con esso hanno avuto di mira le parti (cioè lo scopo pratico, la causa concreta).

La causa concreta del contratto è immeritevole solo quando sia contraria “alla coscienza civile, all'economia, al buon costume od all'ordine pubblico”.

Tali principi, già affermati nella Relazione al Codice Civile, risultano oggi consacrati agli artt. 2, secondo periodo, 4, comma 2, e 41, comma 2 Cost.

Nella sentenza in commento, le Sezioni Unite hanno altresì precisato che affinché un patto atipico possa dirsi “immeritevole”, ai sensi dell'art. 1322 c.c., non è sufficiente che il contratto sia poco conveniente per una delle parti, ma “è necessario accertare la contrarietà (non del patto, ma) del risultato cui esso mira con i principi di solidarietà, parità e non prevaricazione che il nostro ordinamento pone a fondamento dei rapporti privati”.

Le argomentazioni della Corte d’appello sono state considerate, come vedremo, irrilevanti ai fini del giudizio di meritevolezza della clausola ‘rischio cambio’ contenuta nel contratto di leasing immobiliare in valuta estera.

Il contratto con clausola ‘astrusa’

La presenza nel contratto di una clausola contrattuale “astrusa” non rende il contratto nullo o “immeritevole” ex 1322 c.c., ma impone al Giudice di fare ricorso agli strumenti legali di ermeneutica (“la clausola oscura andrà dunque interpretata, in mancanza di altri criteri, almeno in modo che le si possa dare un senso (artt. 1371 c.c.), oppure contra proferentem (art. 1370 c.c.)”.

Il contratto con clausola ‘macchinosa’

Neppure la presenza di una clausola contrattuale “macchinosa” è idonea a fondare il giudizio di non meritevolezza. Al più la stessa potrà rendere il contratto annullabile laddove abbia inciso sulla formazione del consenso del contraente (consenso dato per errore o carpito con dolo) o potrà influire sulla violazione del dovere di fornire tutte le necessarie informazioni precontrattuali, ove imposte dalla legge o dalla buona fede.

Le Sezioni Unite ricordano come siano stati elaborati dalla prassi commerciale numerosi contratti che prevedono necessariamente clausole articolate e complesse (ad es. i contratti di handling aeroportuale, le assicurazioni dei rischi agricoli, il noleggio di piattaforme off-shore, il project financing di opere pubbliche, ma anche i contratti di massa come quelli di somministrazione di energia elettrica), ma non per questo gli stessi devono essere considerati immeritevoli di tutela.

Il contratto aleatorio

Secondo la Corte d’appello, la clausola di ‘rischio cambio’ nel contratto in esame era caratterizzata da “aleatorietà e squilibrio”, in quanto prevedeva una differente base di calcolo dell’indicizzazione a seconda che l’euro si fosse apprezzato o deprezzato rispetto alla valuta di riferimento.

Per le Sezioni Unite un contratto aleatorio non può dirsi, per ciò solo, immeritevole di tutela: “la sentenza impugnata mostra di confondere l'alea economica, insita in ogni contratto, con l'alea giuridica, che del contratto forma invece oggetto e ne è elemento essenziale: e cioè la susceptio periculi. E nel caso di specie causa del contratto era il trasferimento della proprietà di un immobile, non il trasferimento di un rischio dietro pagamento di un prezzo”.

La vendita del raccolto futuro, l'assicurazione sulla vita a tempo determinato per il caso di morte, la rendita vitalizia, ricordano le Sezioni Unite, sono tutti contratti aleatori previsti dalla legge.

Allora se è la stessa legge a consentire la stipula di contratti aleatori, la stessa aleatorietà non può ritenersi di per sé caratteristica idonea a rendere il contratto ‘immeritevole’ ai sensi dell’art. 1322, co. 2, c.c.

Non solo la legge, ma anche l’autonomia negoziale consente alle parti di stipulare contratti aleatori atipici non espressamente previsti dalla legge (v. il caso del vitalizio atipico di cui è stata affermata in giurisprudenza la liceità e la meritevolezza).

Lo squilibrio delle prestazioni

Per le Sezioni Unite, lo “squilibrio” delle prestazioni, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte d’appello, non è idoneo a fondare un giudizio di immeritevolezza contrattuale.

La clausola di ‘rischio cambio’, secondo il giudice di secondo grado, determinava uno squilibrio tra le obbligazioni dei contraenti non essendo simmetrica la variazione del saggio degli interessi tra il concedente e l’utilizzatore.

Le Sezioni Unite non concordano sul fatto che il concetto di ‘equilibrio delle prestazioni’ in un contratto sinallagmatico debba consistere in una paritaria e perfetta equipollenza tra le contrapposte obbligazioni.

Evocando in modo suggestivo l’immaginedel ‘letto di Procuste’, le Sezioni Unite sostengono che ogni minimo disallineamento della predetta parità non possa essere sindacato dal giudice “amputando parti del contratto per ricondurlo all’equità”.

La ragione è che “il diritto dei contratti… non impone l'assoluta parità tra le parti quanto a condizioni, termini e vantaggi contrattuali”.

Un’interpretazione diversa si porrebbe in contrasto con il principio cardine del nostro ordinamento della libertà negoziale.

Nello svolgimento della libera iniziativa economica, ciascuno ha il diritto di pianificare in piena libertà le proprie scelte imprenditoriali e commerciali pur sempre nel rispetto delle regole e della buona fede.

Alla luce di ciò lo squilibrio tra prestazione e controprestazione, laddove sia la conseguenza di una decisione assunta in piena libertà ed autonomia, non determina l’immeritevolezza del contratto.

Contro lo squilibrio (economico) tra le prestazioni, precisano le Sezioni Unite, quando lo stesso è genetico, è ammesso come rimedio il ricorso alla rescissione per lesione, quando è sopravvenuto il rimedio della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.

Il giudizio di meritevolezza va formulato in concreto ed ex post

La valutazione circa la validità o la meritevolezza di un patto contrattuale - in forza del principio per cui cum nulla subest causa, constare non potest obligatio - non può mai limitarsi all'esame del suo contenuto, senza apprezzarne gli effetti, e senza valutare se essi siano sorretti da una giusta causa.

Il giudizio sulla meritevolezza, affermano le Sezioni Unite, non può essere formulato in astratto ed ex ante, ma va compiuto in concreto ed ex post, ricercando lo scopo perseguito dalle parti.

La clausola di ‘rischio cambio’, affermano le Sezioni Unite, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice di secondo grado, avrebbe potuto avere varie giustificazioni (“Se infatti il franco svizzero si fosse apprezzato rispetto all'Euro, il concedente avrebbe ricevuto una prestazione (in Euro) di valore nominale inferiore a quella che gli sarebbe spettata in valore reale, e tale riduzione avrebbe riguardato l'intero credito: sia la parte pagata dall'utilizzatore a titolo di rimborso del finanziamento, sia la parte pagata a titolo di imposta. Il concedente, dunque, in tal caso avrebbe ricevuto un corrispettivo inferiore a quello preventivato, e ciò avrebbe alterato il suo piano finanziario: e questa sarebbe potuta essere teoricamente una valida ragione per porre a base del calcolo del conguaglio anche l'IVA. Se invece il franco svizzero si fosse deprezzato rispetto all'Euro, l'utilizzatore avrebbe versato (in Euro) una prestazione in valore nominale superiore a quella che avrebbe dovuto versare in valore reale. Ma degli importi versati dall'utilizzatore, però, il concedente doveva necessariamente stornarne un'aliquota a titolo di IVA, e di tale importo non sarebbe stato in potere del concedente pretenderne la restituzione dall'erario, per restituire l'eccedenza all'utilizzatore: e questa sarebbe potuta essere teoricamente una valida ragione per porre a base del calcolo del conguaglio anche l'IVA.”

In conclusione, le circostanze accertate dalla Corte di appello (aleatorietà, difficoltà di interpretazione, asimmetria delle prestazioni) sono irrilevanti ai fini del giudizio di meritevolezza previsto dall’art. 1322 c.c.

Sulle questioni poste dall’ordinanza di rimessione. La definizione di strumento finanziario derivato.

In relazione alle questioni poste dall’ordinanza interlocutoria e più sopra riassunte, le Sezioni Unite hanno escluso che la clausola inserita nel contratto di leasing che faccia dipendere gli interessi dovuti dall'utilizzatore dalla variazione di un indice finanziario insieme ad un indice monetario, costituisca uno strumento finanziario derivato o piuttosto un ‘derivato implicito’.

La clausola di ‘rischio cambio’ non rientra nella nozione di derivato contenuta dell’art. 1 del d.lgs. 58/1998 nè in base alla normativa vigente né in base a quella ratione temporis applicabile (anteriore alle modifiche operate dal d.lgs. 303/2006).

Secondo le Sezioni Unite la clausola in esame non costituisce derivato “per la semplice ragione che attraverso essa le parti non hanno scambiato nulla; né hanno inteso trarre frutto da uno scambio di valori comunque determinati”.

Per effetto del contratto, avente ad oggetto la locazione finanziaria dell'immobile, la società concedente ha assunto l'obbligo di acquistare l'immobile, la società utilizzatrice quello di goderne e restituire le rate.

Non era interesse delle parti, dicono le Sezioni Unite, concludere quel contratto “per lucrare sulle previste fluttuazioni valutarie, e tanto meno per coprire un rischio di credito”.

La clausola che àncora il saggio degli interessi dovuti dal debitore di un contratto di leasing ad un indice monetario non costituisce una compravendita né un'opzione, e tanto meno aveva lo scopo di coprire un certo rischio o "scommettere" sull'andamento dei cambi.

La clausola, continuano le Sezioni Unite, “si limitava ad agganciare il debito dell'utilizzatore ad un valore monetario, e questa Corte ha già stabilito che rientrano nella categoria degli "strumenti finanziari collegati alla valuta" soltanto quelli per mezzo dei quali le parti intendono speculare sull'andamento del mercato delle valute, e non quelli che si limitano a determinare il valore d'una prestazione rinviando ad un indice monetario, comunque determinato (Sez. 1, Sentenza n. 19226 del 04/09/2009, in motivazione)”.

Gli elementi fondanti uno strumento finanziario derivato sono principalmente tre (e sono stati individuati dalle S.U. Cass. 8770/2020):

  1. la c.d. "differenzialità", e cioè l'intento delle parti di trarre vantaggio dalla differenza di due valori variabili;
  2. l'esistenza di un "capitale nozionale", cioè la somma di denaro astrattamente assunta quale base di calcolo dei reciproci flussi finanziari tra le parti:
  3. la possibilità - tipica dei derivati - di sciogliersi da esso avvalendosi dell'opzione "mark to market".

I predetti tre requisiti non sussistono nel caso del leasing immobiliare in valuta estera con clausola di ‘rischio cambio’ in quanto l’oggetto del negozio è indubitabilmente l'acquisto di un immobile e non la speculazione su un titolo; il capitale produttivo dei flussi finanziari è reale e realmente dovuto, e non già nozionale; non è prevista la possibilità di sciogliersi avvalendosi dell’opzione.

La clausola di rischio cambio non ‘inquina’ la causa del contratto di leasing

In relazione poi all’altra questione sollevata dall’ordinanza interlocutoria e cioè “se la clausola di rischio cambio snaturi la causa del contratto di leasing”, le Sezioni Unite hanno dato risposta negativa.

Per stabilire se un contratto, a causa di pattuizioni eterogenee rispetto al suo schema tipico, abbia mutato causa e natura, occorre attenersi a tre criteri:

  • la qualificazione del contratto come “atipico” deve dipendere dai suoi effetti giuridici, non da quelli economici” nel senso che occorre “avere riguardo all'intento negoziale delle parti, non al risultato economico di esso, e tanto meno alla sua convenienza per una delle parti”;
  • un contratto non muta natura e causa, sol perché uno dei suoi elementi presenti un'occasionale difformità rispetto allo schema legale tipico” nel senso che il rapporto deve divenire del tutto estraneo al tipo normativo;
  • le prestazioni atipiche poste a carico di una delle parti non mutano la causa tipica del contratto, se in questo permane la prevalenza degli elementi propri dello schema tipico”.

Ciò premesso, le Sezioni Unite giungono alla conclusione che “la previsione di maggiori o minori obblighi a carico di una delle parti, rispetto a quelli scaturenti dallo schema contrattuale tipico, non è di per sé sufficiente a concludere che quel contratto, merce' la pattuizione di quegli obblighi aggiuntivi, abbia mutato causa e natura”.

Alla luce dei predetti principi la presenza della clausola di rischio cambio nel contratto di leasing non consente di affermare “che, mercè essa, scopo dell'utilizzatore non fu acquisire un immobile, ma fu investire del denaro per realizzare un lucro finanziario invece che commerciale”.

La clausola di rischio cambio non è contraria a buona fede.

In merito all’ultima questione sollecitata dall’ordinanza interlocutoria, le Sezioni Unite hanno affermato che il giudizio di meritevolezza del contratto e quello riguardante il rispetto del dovere di buona fede servono a stabilire cose diverse.

Il giudizio di meritevolezza serve a stabilire se il contratto possa produrre effetti, mentre quello sul rispetto della buona fede serve a stabilire ad esempio, prima della stipula, se il consenso di una delle parti sia stato carpito con dolo o dato per errore, e, dopo la stipula, a stabilire come debba interpretarsi il contratto (art. 1366 c.c.). Ancora, dopo l'adempimento, può servire a stabilire se questo sia stato inesatto (art. 1375 c.c.).

Mentre il contratto immeritevole è improduttivo di effetti, il contratto eseguito senza buona fede fa sorgere il diritto alla risoluzione o al risarcimento del danno.

Alla luce di questi noti principi, le Sezioni Unite, hanno affermato che “la sola pattuizione di una clausola di rischio cambio come quella oggetto del presente giudizio non può costituire, da sola, violazione dei doveri di correttezza e buona fede da parte di un intermediario creditizio o finanziario”.

I principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite

A conclusione della disamina, le Sezioni Unite hanno affermato con la sentenza in commento i seguenti principi di diritto:

- “il giudizio di "immeritevolezza" di cui all'art. 1322, comma 2, c.c. va compiuto avendo riguardo allo scopo perseguito dalle parti, e non alla sua convenienza, né alla sua chiarezza, né alla sua aleatorietà";

- "La clausola inserita in un contratto di leasing, la quale preveda che: a) la misura del canone varii in funzione sia delle variazioni di un indice finanziario, sia delle fluttuazioni del tasso di cambio tra la valuta domestica ed una valuta straniera; b) l'importo mensile del canone resti nominalmente invariato, e i rapporti di dare/avere tra le parti dipendenti dalle suddette fluttuazioni siano regolati a parte; non è un patto immeritevole ex art. 1322 c.c., né costituisce uno "strumento finanziario derivato" implicito, e la relativa pattuizione non è soggetta alle previsioni del d.lgs. 58/98".

Per leggere il contenuto integrale della sentenza delle Sezioni Unite clicca qui:

https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/5657_02_2023_civ_no-index.pdf

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